Arte contemporanea
Ci sono due mostre di pittura nella sinistra Piave, Bruno Donadel a Conegliano e Renato Varese a Cappella Maggiore.
Donadel, di Soligo, espone presso palazzo Sarcinelli, una struttura che si è evoluta nel tempo fino a diventare un luogo di eccellenza dove possono essere veicolate mostre d’arte di ogni genere.
La pittura di Donadel invece non sembra si sia evoluta; nonostante il panegirico introduttivo alla mostra intitolata “Quartetto di stagioni per voce sola” che rievoca le origini del “pittore contadino”, bisogna prendere atto che quell’epoca è finita da tempo, ed è subentrata l’epoca del “déjà vu” dedicato soprattutto al mantenimento dell’imprinting che, come noto ad ogni buon gallerista o editore, consente l’immediato riconoscimento commerciale dell’artista.
Insomma non c’è più il poeta della sua terra, è sparita anche quell’impronta di “Fauvismo” che caratterizzava le prime opere di questo artista, le opere migliori, magari quelle che egli pensava avessero meno valore.
A Cappella Maggiore, dove espone Renato Varese da Conegliano, le cose sono variegate.
La mostra è allestita nel sottotetto di un fabbricato comunale; uno stanzone denominato pomposamente ”Sala Espositiva GACMA” (facendo il verso alla ben più famosa “GACMA” Galleria di Arte Contemporanea di Malaga).
Non è il luogo ideale per le mostre d’arte. Le circa 20 finestre sono ermeticamente e perennemente chiuse da pannelli espositivi e non fosse per la visione della struttura in legno del tetto, sembra di essere in un bunker sotterraneo dove non passa un filo d’aria, nessuna apertura, nessun impianto di ricircolo, depurazione o antincendio.
L’estate scorsa per un attimo avevo creduto di essere stato colpito dalla “sindrome di Stendhal”. Eppure non c’erano opere d’arte in grado di provocare tale disturbo, poi avevo realizzato che si trattava semplicemente di sindrome da mancanza di ossigeno.
Questa volta qualcuno è riuscito a scardinare il pannello di una finestra e la situazione era più accettabile.
Meno accettabile l’esposizione denominata “Il tempo dell’uomo” ma che in realtà poteva anche essere “Il tempo della bestia”, per la prevalente sequenza di deprimenti raffigurazioni da macelleria con carcasse di animali, quarti di bue appesi, cadaveri, zombies e altre scene di cattivo gusto, rasentanti la blasfemia.
L’arte dovrebbe avere una funzione metaforica e allegorica il cui percorso creativo è indiretto o comunque diverso da ciò che si vuole rappresentare, ma a cosa serve ridicolizzare il clero e la religione con improbabili raffigurazioni di preti e vescovi, e anche il Papa (identificabile per il cardinale posto in secondo piano) montato al contrario su un toro e attorniato da clowns? Obiettivo facile di questi tempi, si dirà, ma alcune “opere” esposte sono datate e ripetitive, a conferma di una lunga militanza anticlericale, e quale funzione dovrebbero avere? Quale verità da rivelare? Quale messaggio trasmettere? Stupire? Condannare? Scuotere le coscienze ormai refrattarie da immagini giornaliere ben più orribili che si possono ricavare in qualunque notiziario televisivo?
Dove è finita la poesia introspettiva del “Silenzio sulla neve”, per citare uno dei paesaggi di Varese?
La “laudatio” critica, intanto, è perifrasata con una cadenza da “Schwarzlose”, tanto per rimanere in tema con le imminenti celebrazioni, e ciò per impedire domande dal pubblico la cui risposta, per risultare intelligibile, implicherebbe necessariamente un difficile sforzo di catacresi.
L’oratrice propone un impudente accostamento a Piero della Francesca, Bellini, Mantegna, Rembrandt, Cosmè Tura, Francesco del Cossa e persino Dürer, quando i riferimenti potrebbero essere Hermann Nitsch, Günter Brus, Otto Mühl e Rudolf Schwarzkogler, fondatori, nella prima metà degli anni ’60, del movimento “body art” denominato ”Azionismo viennese” nel cui manifesto si dichiara che l’arte deve suscitare nello spettatore disgusto e ribrezzo, colpendolo con immagini di animali sanguinanti e sacrificati in croce, ebbrezza, nudità e sangue, anche con la partecipazione diretta a riti sanguinolenti, squartando bestie da soma e imbrattando di sangue persone crocifisse, allo scopo di liberare l’innata tendenza alla violenza, dove la totale disinibizione degli impulsi animali ha come risultato una reazione catartica e purificatoria, e quindi l’ascesa alla spiritualità.
E infatti la presentazione viene reiterata da un altro oratore con la lettura di un sesquipedale monologo, dove si passa dall’insulto cosmico indirizzato a tutti i presenti, considerati nel confronto con il “maestro”: “…comuni mortali, non vedenti” (compreso il sottoscritto ovviamente), alla descrizione della funzione “catartica” dell’arte, vista nella interpretazione estetica di Aristotele, cioè, per tagliare corto, lo spettatore nella visione di immagini dolorose come scene ripugnanti di animali squartati o di cadaveri, prova il piacere dello spettacolo che gli procurerà una purificazione poiché sa di provare emozioni finte, determinate dallo stesso spettacolo. Quindi le passioni, la pietà o il terrore saranno risolti catarticamente nello spettatore nel momento in cui la raffigurazione si scioglierà in una spiegazione razionale dei fatti narrati.
Però, aggiunge l’oratore: “… il maestro intende la catarsi nel senso primigenio del termine, cioè purificazione, e quindi non vede la sua arte come catarsi, perché non ha bisogno di essere purificato, perché possiede già la purezza d’animo…” (?)
A questo punto ne abbiamo abbastanza, e anche il “maestro”, al quale è data la parola, dichiara di “non avere nulla da dire”, e conclude salutando i suoi amici di Conegliano con nessun accenno a quelli di Cappella Maggiore che, per superare il comprensibile imbarazzo, attivano prontamente lo speaker che annuncia: “al di là della strada, nel prefabbricato della pro-loco, sarà offerto un buffet dove non ci saranno cose belle come queste, ma sicuramente più buone”.
Di fronte alla minaccia di vedere cose più brutte di queste ho preferito non attraversare la strada e dileguarmi nella direzione opposta.
Bisogna comunque dare atto a Duilio Dal Fabbro, organizzatore di questa e altre innumerevoli esposizioni, che pure proveniente da un settore diverso, si prodiga con un costante impegno, non sempre capito da tutti e a volte osteggiato, nel tentativo di dare un contributo culturale nell’area del Vittoriese (l’ultima mostra organizzata, in ordine di tempo, sull’arte optical/cinetica, si è chiusa lo scorso mese di luglio a Palazzo Todesco di Vittorio Veneto).
L’unico difetto di Dal Fabbro è che si interessa solo ed esclusivamente di arte contemporanea della quale oltre il 90% è materia per operatori ecologici.
Per gli estimatori del genere, a Vienna è in corso fino al prossimo 5 ottobre 2014, la fiera internazionale dell’arte contemporanea “Viennafair-The New Contemporary”. Ci sono 27 nazioni, dalla Russia agli Stati Uniti, con la presenza delle maggiori gallerie, oltre 500 artisti e migliaia di opere. L’Italia non è presente, e di “maestri” italiani non si è vista nemmeno l’ombra.
Vienna è uno hub dell'arte contemporanea europea, con innumerevoli spazi espositivi, la Kunstalle Wien e il MuseumsQuartier sono tra i più frequentati con milioni di visitatori.
Nel MuseumsQuartier c’è anche il Mumok, il più grande museo di arte moderna e contemporanea d’Europa, un enorme fabbricato costruito nel 1992, sembra un mega obitorio e quindi stilisticamente coerente con l’arte ospitata, infatti vi è contenuta anche la più vasta collezione dell’ “Azionismo viennese” di cui sopra.
La foto nel titolo (tavolozza colori, ripresa alla 45° Mostra Regionale della Mela a Pantianicco UD, edizione 2014), non ha nessun riferimento con il testo.