Ponti
A partire dagli anni ‘60 quando l’ingegneria italiana dettava legge nel mondo delle costruzioni, l’Ing. Riccardo Morandi è stato uno dei grandi strutturisti per l’utilizzo del cemento armato e del cemento precompresso. Erano gli anni della costruzione dei circa 800 Km dell’autostrada del sole dove circa 1500 tra ponti, viadotti e cavalcavia, tranne due in acciaio, sono stati realizzati in cemento, alcuni dei quali dallo stesso Morandi che complessivamente in Italia ne ha realizzati 34.
Alcuni progetti, sono tuttora esposti al Museum of Modern Art di New York, a seguito della mostra “Twentieth Century Engineering” aperta nei primi anni ’60, quali esempio di nuove forme nell’ingegneria strutturale.
Il viadotto Polcevera di Genova è stato il primo ponte strallato al mondo, e l’ing. Morandi, con la sua grande competenza in fatto di statica, aveva sviluppato un brevetto di cemento precompresso per la costruzione degli “stralli” cioè i cavi o tiranti inclinati che partendo dalla sommità dell'antenna o pilastro, sorreggono l’impalcato stradale.
In breve, l’idea di Morandi era quella di tendere i cavi di acciaio all’interno di una guaina di calcestruzzo, preventivamente disposta intorno ad essi, omogeneizzata e compressa, consentendo in tal modo l’eliminazione concettuale delle fessurazioni del cemento, evitando l'allungamento dei tiranti dovuti al passaggio dei carichi, e garantendo una efficace protezione dell’acciaio dagli agenti atmosferici, anche per la stessa natura alcalina del cemento.
Il cemento lavora solo in compressione mentre gli stralli lavorano a trazione e sono generalmente realizzati da trefoli (cavi) in acciaio ad alta resistenza (ultimamente anche in fibra di carbonio), ma comunque di materiale metallico, e la soluzione di Morandi era ardita, inusuale e fortemente discutibile, provocando all’epoca un notevole dibattito sulle riviste specializzate e l’ingegnere era finito nei libri di testo come l'uomo che aveva cercato di superare i limiti dei materiale e delle forme strutturali.
Nel tempo questi elementi strutturali troppo snelli con una precompressione molto modesta, si sono dimostrati di scarsa efficacia rendendo anche impossibile valutare lo stato di corrosione dei trefoli metallici interni. Una tipologia costruttiva che nessuno ha mai più utilizzato, salvo altri due casi sempre di Morandi nel ponte Wadi Kuf in Libia (attualmente chiuso per mancanza di manutenzione) e il ponte General Rafael Urdaneta a Maracaibo in Venezuela, che all’epoca era il ponte strallato più lungo al mondo, dove però gli stralli sono stati completamente sostituiti.
Al giorno d’oggi non è più accettabile proporre lo schema statico del pilone “a cavalletti” con stralli in calcestruzzo precompresso in trazione, ma al tempo, l’idea era innovativa e coraggiosa, geniale anche sotto l’aspetto estetico dell’estrema leggerezza dei viadotti.
(Prima del crollo il viadotto Polcevera era anche vincolato dalla Soprintendenza essendo considerato un vero e proprio monumento).
Qualche dubbio su tale tipologia era stata velatamente espressa (con fair play) anche dal mio vecchio professore di Scienza delle Costruzioni all’università: “…i suoi ponti sono strutture belle e leggiadre che galleggiano nell’aria, e che a guardarli sembrano congelati nell’attimo prima di cadere”.
Con il dovuto rispetto per le persone che hanno perso la vita nel crollo di Genova, l’ing. Morandi può essere assolto perché la tecnologia del cemento armato e precompresso era stata sviluppata quando tutti pensavano che il cemento fosse eterno o quasi, e si teneva in poco conto un elemento fondamentale rappresentato dal suo rapido degrado, quello che in gergo tecnico si chiama “rottura di fatica” delle strutture sottoposte a stress.
Non era compito personale dell’Ing. Morandi occuparsi di manutenzione, ma del gestore delle strade che avrebbe dovuto vigilare, monitorare, e provvedere ai necessari interventi tra i quali, se non sono assicurati i parametri di sicurezza, prevedere anche l’ipotesi di demolizione preventiva e rifacimento.
Oggi esistono additivi e idonee tecnologie, ma i ponti, i viadotti e tutte le opere infrastrutturali viarie costruite in cemento armato negli anni ’60-’70-’80, se non sottoposte ad una seria manutenzione, sono destinati a cadere.
Ma si sa che le manutenzioni dei ponti sono elettoralmente poco redditizie, e non interessano fino al momento in cui ci sono vittime.
Inoltre, sulla manutenzione prevale la concessione estetica e la cultura storica, vedi il paradosso dove gli edifici storici, le chiese e tutti i centri storici, sono strutture non sicure in caso di terremoto, ma alle quali si può tranquillamente accedere solo perché sono vincolate dalla Soprintendenza che impedisce l’esecuzione di interventi antisismici risolutivi, mentre se queste stesse strutture non fossero vincolate, sarebbero dichiarate assolutamente inagibili fino alla esecuzione e completamento di detti interventi.
(Negli Stati Uniti le strutture in cemento armato e cemento precompresso con più di 50 anni di vita, sono regolarmente demolite anche se non sono evidenti particolari lesioni, mentre in Giappone la vita media di tali strutture è di 25 anni, ovvero si possono mantenere anche oltre l’età prevista ma le assicurazioni non risponderebbero di eventuali danni).
Sulle cause del crollo del ponte, escluso il fato, si possono fare alcune considerazioni:
– il pilone n. 9 non ha ceduto a causa del fiume in quanto la pila di fondazione non è stata scalzata all’acqua, ma potrebbe avere ceduto il terreno sottostante;
– l’ipotesi del fulmine caduto sullo stesso pilone n. 9, di altezza circa 90 metri è stata categoricamente smentita dagli esperti (probabilmente non hanno mai visto un campanile, completamente sventrato dall’onda d’urto di una scarica elettrica);
– si è trattato di una serie di concause innescate dal deterioramento dei materiali non manutenzionati, dalle vibrazioni causate da un traffico quadruplicato rispetto alle ipotesi di progetto, e dal temporale in corso (vedi il caso del Tacoma Bridge, ponte sospeso crollato per risonanza al vento);
– l’indiziato principale, per le problematiche congenite sopra riportate, sembra essere il cedimento di uno strallo del pilone n. 9, la cui rottura avrebbe innescato un effetto «frusta» sullo stesso pilone che sembra ruotare prima di cadere, come appare nell’unica parziale ripresa video.
Resta da capire se lo strallo si sia spezzato per primo o se invece sia stata la conseguenza di un altro guasto come la caduta per stress dell’impalcato centrale tra i piloni 9 e 10.
Riguardo a quest’ultima ipotesi, nella relazione di calcolo l’Ing. Morandi afferma che rispetto ad un ponte sospeso, il ponte strallato è meno deformabile, ma la principale caratteristica è quella di comportarsi come una macchina sempre in movimento, assumendo un comportamento statico anche per i carichi mobili e rimanendo sempre in equilibrio, sotto l’azione del peso proprio e del traffico stradale variabile.
Osservando la foto del titolo, ripresa qualche settimana prima del crollo e pubblicata sui siti esteri, si notano i piloni a cavalletto, che costituiscono entità strutturali continue a sé stanti, collegate tra loro dall’ impalcato, o travata tampone, semplicemente appoggiato sulle rispettive mensole sostenute dagli stralli, equilibrando in tal modo il carico tra gli stessi piloni.
La foto oltre al generale degrado delle strutture, evidenzia anche cavi spezzati sporgenti dall’impalcato centrale.
Se per una qualche ragione l’impalcato viene a mancare, il carico sui cavalletti dei piloni, per effetto dello scorrere di traffico pesante, risulta improvvisamente sbilanciato e in condizione precaria. Questa è la situazione in cui si trova attualmente il pilone n. 10, ancora in piedi ma che dovrà essere abbattuto, mentre il pilone n. 9, coinvolto nell’effetto dinamico causato dal probabile cedimento asimmetrico dell’impalcato, potrebbe aver ruotato su se stesso con il conseguente crollo.
Comunque sia la magistratura e la commissione di esperti nominata all’uopo ci faranno conoscere le risultanze, nel frattempo però, la società di maggioranza per la gestione delle autostrade, quella che da anni ci bombarda di immagini con abbracci multirazziali, nelle quali si tenta di gettare ponti tra culture di etnie e colori diversi in nome di un delirante sincretismo di facciata, potrebbe ora incaricare il famoso, antiveneto fotografo per un utile servizio di documentazione sullo stato dei veri ponti di pertinenza dal titolo “Dilapidated Bridges of Benetton”.