A ognuno il suo (razzismo)
Da Vittorio Veneto ieri ho fatto un saltino a Reggio Calabria per vedere, una volta tantum, una faccia di bronzo come si deve.
Tranquilli: non vi racconterò le mie "vacanze". Né vi descriverò i guerrieri di Riace (a cui vale la pen(n)a di dare la mano da vicinissimo).
È solo che passando vicino al porto di Reggio non ho potuto non vedere, non ascoltare e quindi non scrivere. Sulla superficie affollata del Tirreno pulsavano alcune imbarcazioni.
– Che meraviglia! – ha esclamato la ragazza carinissima che stava accanto a me. – Quello yacht ha persino la piscina. Che eleganza! Ho cercato di individuare la "meraviglia", ma sul mare ho visto solo l'imbarcazione della guardia costiera con qualche decina di migranti sul ponte. La ragazza ha notato il mio sguardo ferito. Ha riguardato il mare e, con lo stesso tono esultante al contrario, ha sbuffato:
– Ancora ne sono arrivati? Che schifo!
L'argomento "migranti" nella piccola combriccola che mi circondava ha finito col sostituirsi alle altre chiacchiere amene. Ed è stato allora che ho colto la sfumatura espressiva.
Fino a qualche tempo fa, moltissima gente diceva "Io non sono razzista, però con 'sti profughi non se ne può più." Oggi la dichiarazione che va per la maggiore, quella trendy fashion, è diventata: "Datemi pure della razzista, però con 'sti profughi è ora di finirla".
Una sfumatura. Solo una sfumatura sintattica, ma significativa. Perché se fino a poco fa "sentirsi dare del razzista" veniva colto come un insulto (razzismo e imbecillità sono sinonimi), ora l'etichetta viene accettata con fierezza: "sono razzista sì, e me ne vanto".
A ognuno il suo(orgoglio).
(E la sua etichetta).