La figata della riforma Gelmini
Che meraviglia!
C’è che di che restarne estasiati.
Finalmente gli effetti della riforma della scuola si vedono, si toccano, si odono. Si annusano. E il merito di chi è? Di Maristella Gelmini, il ministro dell’Istruzione.
Ora voi scettici, che vi annidate nei quartieri dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi, non venite a dire No, non è vero. Non venite a dire che la riforma della scuola dura da 20 anni, che ciò che ci appare è il risultato di una lunga progressione di lavori-in-corso e che la Gelmini è solo una passacarte. Non è vero.
Se siete genitori, insegnanti, padrini, amici di studenti e scolari, conducenti di corriere, controllori di linee ferroviarie, venditori di fumo, brioche o tramezzini, con la scuola avete di sicuro a che fare. E vi saerte accorti che finalmente – taglia taglia – siamo arrivati a una scuola d’eccellenza. Una scuola che ha saputo razionalizzare le risorse. Adeguarsi alle necessità. Dare conoscenze e competenze.
Entrate in una prima superiore pubblica, magari in una classe prima di una scuola tecnico-professionale. Nella stragrande maggioranza dei casi vi troverete di fronte 28 allievi. Incastonati. Le pareti delle aule infatti non si allargano in proporzione al numero degli allievi: quelle sono e quelle restano, a prescindere. Ma i 28 allievi stanno lì. Giovani, speranzosi e in attesa. Alle loro spalle hanno pure una cartina geografica che avrà dieci, quindici anni, ma che porta benissimo la sua età. Davanti ai banchi gli stuenti hanno una cattedra, una lavagna, dei gessetti bianchi e un cancellino a chiocciola. La tecnologia esiste anche a scuola altro che no: in un’aula si può scrivere e cancellare ciò che si è scritto.
E l’atmosfera è fresca. Multietnica (almeno un terzo dei ragazzi ha nomi e cognomi diversi mille miglia da Mario Rossi). Desiderosa di apprendere. Di refrigerarsi con quell’ossigeno che dopo dieci minuti si è già esaurito viste le dimensioni dell’aula.
L’insegnante parla, gli allievi prendono appunti. Sorridono. Anche Romero, il ragazzino con la sindrome di Down, sorride. Fa la prima. Ha 16 o 17 anni. E’ carino, dolce, buono. Ma avrebbe bisogno di un insegnante di sostegno o di un assistente polivalente. Per disegnare un albero, scrivere il proprio nome da sinistra verso destra e non viceversa. Sbucciare la banana che la mamma gli ha messo nello zaino. Ma Romero, durante le prime tre ore di lezione, non ha l’assistente polivante. Non ha il docente di sostegno. A entrambi sono state ridotte le ore di lavoro. Romero, il 29° ragazzino di quella prima superiore, sta lì a vedere quello che succede intorno a lui. E per sua fortuna succedono un sacco di cose: i quaderni si aprono, i gessetti sfrigolano sulla lavagna, l’insegnante parla. Magari non dice chissà che. Ma ha 28 allievi più uno davanti. Ha solo 4 miliardi di Storia da raccontare in due ore alla settimana. Ha la possibilità di interrogare tutti (magari dedicando a ciascuno addirittura un minuto, un minuto e mezzo, perché Storia è comunque una materia orale). L’insegnanta parla, spiega, educa. Romero sorride.
E intorno a lui, a loro (in quel rimasuglio di spazio che resta tra 29 banchi illuminati da una teoria di finestroni dalle tendine maciullate) efficienza, passione, risorse brillano di luce propria. La riforma finalmente è qui e ora.