Cose (indigeste) dell’altro mondo
Come sottrarsi alla visione di un film che – da queste parti almeno – ha fatto notizia prima di diventare un film?
Tra Bad teacher e Cose dell’altro mondo, io e mia figlia Stefy ieri sera abbiamo scelto di vedere Cose dell’altro mondo.
Un film parecchio bruttino.
A parte l’allegro tamburellare delle scene e delle battute iniziali il film di Francesco Patierno era banale. E la cosa mi ha fatto persino scivolare in depressione post film.
Il soggetto. Il soggetto, l’idea della storia potevano pure essere carini. Voglio dire: ipotizzare – alla Rodari – una realtà dove improvvisamente scompare qualcosa (qualcuno, nel caso in questione) può sollecitare situazioni, reazioni, considerazioni divertenti, paradossali, intriganti. Intelligenti. Può sollecitare riflessioni. Nel film Cose dell’altro mondo, dal ricco e produttivo Veneto (ma anche da tutta la penisola) improvvisamente scompaiono gli stranieri. Che succede? Prima diciamo che succederebbe: succederebbe che la società – minuscola o macroscopica che fosse – si troverebbe a riflettersi in uno specchio deformato. Non solo sotto il profilo economico, ma sopratutto antropologico. Senza la sua connotazione multietinica, la società diventerebbe irriconoscibile, smemorata, disorientata. Sbandata.
Il messaggino che il film trasmette è invece riduttivo come un bigliettino da visita o da svista: non ci sono più gli immigrati? allora non ci sono più benzinai, badanti, prostitute nigeriane e operai…Fine del film. Torniamo tutti a casa. O al passato. Tanto abbiamo perso una bella occasione per guardarci meglio dentro e intorno.
Gli interpreti. L’attore protagonista, Abatantuono, fa il manager bauscia lombardo ma con l’accento veneto. Ha la stazza del commendatore, l’ipocrisia del (be’, per gli esempi scegliete voi) e la tamarraggine che passa quasi inosservata. E’ simpatico, ma credibile come le chele di granchio fatte di soia. E’ una macchiett(on)a, un personaggio da barzelletta e l’unica scena in cui riesce a far strappare un sorriso è quella in cui tenta di sudare con tanto di tuta su una cyclette bevendosi beato uno spritz.
Valerio Mastandrea è piatto come la carta da parati a fiorellini. Nel film, l’alzheimer ha colpito sua madre, eppure pare abbia contagiato pure lui. L’unica emozione la danno i pelucchi della sua barba incolta: verrebbe voglia di grattargliieli, se lo schermo non fosse così lontano dallindice. E poi la sola battuta decente che il regista gli mette in bocca è: Ma dimmi: lui (lui sarebbe il moroso mulatto della sua ex) ce l’ha più grosso del mio?
Valentina Lodovini a mia figlia Stefy è piaciuta molto. In realtà è una bella ragazza dalle grandi tette. Peccato che reciti come se fosse dentro una fiction (leggi: acquariao). Fa una battuta e si blocca. Sorride. Forse qualcuno avrebbe dovuto spiegarle la differenza tra un film e un fotoromanzo.
Vabbe’: ho finito.
Avrei voluto avvisare i lettori (i soliti due) che più che un post questa era una specie di recensione cattiva. Ma ormai è fatta.
Ho scritto tutto il male che pensavo del film, perché mi ha deluso troppo. O forse ho solo mangiato pesante.