La svolta tamarra
Intravedo, oltre la mia finestra, una piccola rosa gialla. E’ sbocciata ieri e oggi furoreggia di bellezza. Non è vero.
Se la guardaste ora, insieme a me, non usereste queste parole per descriverla. Direste piuttosto che la piccola rosa gialla si distingue tra glli altri fiori per la sua esile grazia.
C’è una differenza sensibile tra bellezza e grazia. C’è una differenza sostanziale nel modo di definire l’una e l’altra.
La piccola rosa gialla allude a un’eleganza contenuta, è refrattaria ai complimenti sguaiati, sbandierati. E’ timida, fragile, riservata: danza leggera nei suoi petali di seta.
Annoiati, vero?
Bene, non era nelle mie intenzioni, ma già che ci siamo, sono contenta di averlo fatto. Sì perché – a quanto pare – concetti come quelli di grazia, eleganza, raffinatezza sono superati come i risultati degli ultimi referendum.
Oggi una donna o un uomo che si vogliano far notare tra i fiori del giardino (anche la metafora è vecchia bacucca) hanno due alternative: o furoreggiano di bellezza o sono delle merde.
Tutto il climax di sfumature tra il primo e il secondo modo di essere è – detto in modo modaliolo – una stronzata.
Che poi la bellezza ostentata abbia caratteri estetici discutibili questo è un altro paio di maniche, per lo più irrilevanti, visto che dobbiamo scamiciarci per forza.
Ieri io e mia figlia Stefy abbiamo visto un tale che era l’esempio tangibile di quanto voglio dire: era l’emblema della tamarraggine. Sembrava un carciofo (tanto per restare tra i fiori). Solo che non era commestibile per nulla.
Sui 40/45 anni, il tipo indossava una maglietta rosa pesca Disney, una giacca azzurra, un paio di jeans strappati all’altezza delle cosce, delle ginocchia e del bassoculo. Aveva un ciuffetto laccato che sfidava ogni legge della fisica e un paio di occhiali da sole grandi come due fari di Mercedes. Camminava disinvolto nonostante gli abiti di cui era fasciato fossero di un paio di taglie inferiori alla sua reale. E nonostante le scarpe da ginnastica di vernice gridassero da Vittorio Veneto a Milano: Perché non mi hai lasciato nella scatola? che ti ho fatto di male per mostrarmi al mondo?
Io che difficilmente noto le persone per il look (complice l’ipermetropia, se vuoi) mi sono fatta galvanizzare dal tipo. Ne sono rimasta ipnotizzata. Poi ho dato una gomitata a mia figlia per dirle Ma vedi tu quello che vedo io?
Mia figlia ha degnato l’individuo di uno sguardo poco interessato e ha detto semplicemente: E’ un tamarro. Ce ne sono tanti.
Per me è stata una rivelazione. Per lei una consuetudine. Stefania mi ha detto che la specie tamarra va alla grande. E che non è additata, come faccio io. Anzi che lo è perché vuole esserlo. Mi ha detto che la specie tamarra ama farsi notare per la stravaganza. Che non corrisponde affatto all’eleganza, alla grazia, a tutte quelle robe a cui si accennava. Ma al disorientamento. Per essere davvero tamarra una persona deve avere abiti griffati ma pasticciati, un taglio di capelli dettato dalla moda-massa, un’andatura rozza ma disinvolta e un’espressione facciale assente. Se uno pensa di averne una deve mascherarla subito con grandi occhiali da sole.
Sono rimasta basita (come direbbe qualche amico dal lessico troppo fuori moda). Ma oggi ho capito che mia figlia aveva ragione. Anche a Hollywood le tamarre vanno alla grande. Tanto che Cameron Diaz e Jennifer Aniston stanno spopolando nelle sale di Obama con due personaggi scalcinati, volgari, para-bestiali. La critica cinematografica ha già parlato di "svolta tamarra" nel mondo del grande schermo. E noi che copiamo i modelli del cinemausa(to) dobbiamo adeguarci alla tendenza in voga (non in Vogue). Dobbiamo tamarrarci. Pure nel linguaggio. Per cui porcazozza ora chiudo questo vomito di post e vado a pisciare su quella piccola pudica rosa gialla. Echecazzo.