Moto ondoso
Pensavo l’altro giorno (prima che del terribile terremoto del Giappone) che quando io andavo alle elementari dovevo imparare a memoria un sacco di cose. Per esempio tutti gli affluenti del Po. Tutte le province di tutte le regioni italiane. Tutte le lingue, le monete, la religione e il numero della popolazione della stragrande maggioranza dei paesi di tutto il mondo.
Pensavo che, a volte, l’esercizio mnemonico era una tortura (che "razza" di fiume veniva dopo Dora Riparea e Dora Baltea?), a volte era piacevole ("Quant’è bella giovinezza che si fugge tuttavia, chi vuol esser lieto sia eccetera").
Del Giappone, alle elementari e poi alle medie, ricordo che cominciavo la pappardella dicendo "E’ un arcipelago". E nella mia testa (biondina, capelli sottili, un po’ mossi, lunghi, piuttosto spettinati) l’arcipelago prima di essere quello che effettivamente è (un insieme di isole e isolotti) era una specie di creatura mitologica, esotica, (e)stran(e)a e un po’ grottesca, forse a causa di quel prefissoide ("arci") che non mi trasmetteva nulla di buono.
Da grande, il Giappone è rimasto un po’ mito. Il triste presagio della cattiveria e dell’idiozia umana. Ma, col tempo, è diventato un’isola (non più arcipelago) di poesia fatta di ciliegi in fiore e di haiku. E di sushi, ovvio.
Oggi, se ci penso, se rivedo le immagini che arivano da questa terra sbriciolata sul Pacifico, il Giappone mi sembra un’onda. Un’onda di fango e pece e veleno nucleare. La descrizione del Giappone oggi comincerebbe con: il Giappone è un’onda.