Se un no diventa un sì
Se ti dicono no, tu fa’ finta che sia un sì
L’altro giorno, al Tropea Film Festival dove mi hanno invitato per la fondamentale ragione che a volte ho anch’io delle strepitose botte di culo, ho sentito il regista Giuseppe Tornatore che diceva una cosina da nulla.
Una di quelle frasi buttate là, tra un microfono e un applauso, che anche se sono semplici quanto la verità e lineari come lo skyline del litorale di Jesolo, ti fanno interrompere il lungo digiuno (dal non c’è più nulla di interessante nella vita) e ti fanno tornare fame.
Alla presentatrice che chiedeva a Tornatore di dare ai giovani registi e attori un consiglio per fare questo mestiere nonostante tutto, il regista siciliano (tra l’altro carino da matti con i suoi occhialini tondi come il naso) ha detto: Fate in modo che un no diventi un sì. Se a un certo punto i no che vi dicono si accumulano in maniera invereconda, voi fingete di capirli al contrario.
Poi ha raccontato quello che ha fatto lui. All’ennesimo rifiuto di un produttore di riceverlo, lui non ha ceduto. E per un sacco di giorni si è presentato presso il suo ufficio pur non avendo alcun appuntamento. “Probabilmente mi hanno scambiato per pazzo – ha detto Tornatore – ma alla fine l’insistenza mi ha premiato. Il produttore mi ha ricevuto. E poi ci ho fatto pure un film”.
Non è un insegnamento grandioso?
Da applicare subito secondo me. Non solo nel lavoro, ma in tutte le situazioni. Anche in quelle familiari.
Tornata da Tropea, ho detto a mio figlio Umbi di fare il secchiaio (le colonne di piatti inzaccherati svettanti come la Garisenda e gli Asinelli avevano assunto un equilibrio quanto mai precario) e lui mi ha risposto: No, devo uscire.
Io, memore di Tornatore, ho fatto finta che quel no fosse un sì. Ho pensato: Ora Umbi esce un po’ ma poi torna e lava i piatti. Così ho resistito alla tentazione follissima di infilarmi i guanti di lattice e mettermi a grattare pignatte e quant’altro. Mi sono ripassata il rossetto, messa il mascara, tamponato la sbavatura di eyliner blu e sono uscita anch’io.
Quando sono rientrata a casa ho sbattuto le ciglia ancora perfettamente truccate (i mascara oggi hanno una tenuta pazzesca): il secchiaio era sporco come l’avevo lasciato. Le colonne di piatti insozzati avevano aggettato solo di pochi millimetri dal loro baricentro. Forchette cucchiai coltelli erano incrostati come un pranzo comanda.
Insomma lì, nel secchiaio, non era cambiato nulla. Ma dentro di me gongolavo perhé sapevo che il no di mio figlio sarebbe presto diventato un sì. Del resto piatti e posate puliti non ce n’erano più. E prima o poi il pargolo sarebbe stato costretto a tornare sui suoi passi. Esattamente come il produttore di Tornatore.
Alla sera, infatti, quand’è rientrato dalla passeggiata durata quelle sette otto ore, Umbi mi ha chiesto:
– Che c’è per cena? Non hai ancora lavato i piatti? E io dove mangio?
Risposta.
– Per cena non c’è nulla. I piatti li devi lavare tu.
Ri-risposta:
– Allora esco di nuovo. Fado a farmi una pizza al trancio. Ciao.
– No! Tu non esci. Tu resti a casa e fai il secchiaio.
– No! Io esco e vado a farmi un pezzo di pizza perché ho fame.
Visto? Mio figlio è già sulla strada giusta. Per lui un no è già un sì.
E in effetti è uscito di nuovo sbattendo la porta che un pachiderma ci avrebbe messo meno zelo. A proposito: se qualcuno lo vede in giro, si congratuli con lui per aver fatto tesoro di un prezioso insegnamento e gli dica che, a casa, il secchiaio non è messo proprio tanto bene.