Baci a tradimento
Bene (iniziamo il discorso con un avverbio a modo che non nuoce alla salute): il caldo è passato.
E chi lo soffriva incommensurabilmente può togliere l’argomento Mamma, che afa!-Non se ne può più dalla scaletta delle chiacchiere e tornare a parlare col vicino di faccende fondamentali (no: non del costo della vita, piuttosto del costo di una gonna) e magari di quisquilie come la P3, la corruzione e tutto il vermiciume che sta rosicchiando il torsolo della nostra società bacata.
Io nella mia scaletta delle chiacchiere ci metto – al solito – i Problemi personali: istruzioni per il riciclo. Sono così atterrita da quello che succede fuori dal mio zerbino domestico (avete letto di Papi che non lascia ma raddoppia? avete letto che nella sua imperdibile prolusione all’università privata di Novedrate – Como – il Papipremier, citando niente meno che se stesso, ha esordito con questa perla di buongusto: "Vedo belle ragazze laureate con il massimo dei voti, che non assomigliano certo a Rosy Bindi…"?), io sono così spaventata e rosa (participio passato del verbo rodere) da quanto meriggia là fuori che ho deciso di dedicarmi al mio orticello. Cioè alla pianta più bisognosa di cure: mio figlio.
Oggi, dopo averlo insultato perché aveva passato la domenica lontano dal mio cuore e dal mio cellulare, ho cercato di farlo rotolare giù dal letto (alzarlo era impossibile). Ho scosso e riscosso il materasso finché Umbi, mio figlio, ha tirato fuori da sotto il cuscino la sua cascata di capelli biondi e uno sguardo che neanche il vampiro di Twilight. Poi – in una lingua ancora sconosciuta agli umani – ha bofonchiato qualcosa di vagamente simile a un "Ma quanto rompi" ed è finalmente emigrato. Ho cantato vittoria (quella di Scipio e compagnia bella), ho spalancato le finestre, cinguettato al sole di mezzogiorno. E sono tornata a leggere, scrivere e non far di conto. Dopo un po’ ho realizzato che mi circondava un silenzio irreale e preoccupante. Ho chiamato Umbi. Nessuna risposta. Ho urlato il suo nome. Tre volte. Niente. Allora mi sono decisa a perlustrare la casa. Ho trovato Umbi che ronfava sul letto di sua sorella. Non si era alzato. Aveva solo traslocato.
Ho reagito come fa un qualunque ortolano di fronte alla sua pianticella più fragile: mi sono disperata. Per un sussurro di secondo ho pensato di innaffiare Umbi con il latte che gli avevo preparato nella tazza quattro ore prima. Ma ho desistito. Ho lasciato che dormisse. Ignaro di me, di Papi, dei ritmi sonno/veglia, delle mie maniere ricce e dei baci che avrei voluto dargli. A tradimento, ovvio.