La spesa alla Coop
Al solito: titolo fuoriviante.
In realtà, quando apro un post, non so bene neppure io che cosa posterò. La spesa alla Coop di stamattina mi pareva un argomento degno. Ma poi ho guardato mia figlia.
Cioè: non c’è attinenza. Per nulla. Mia figlia sta alla Coop come Milan Kundera sta a Pupo. Mia figlia non sta su uno scaffale o piedistallo o instalazione o espositore. Se mia figlia sta seduta – gambe incrociate- su un letto o divano o tappeto col palmare aperto è già da riprendere. Perché, in genere, mia figlia non va ripresa, nè presa, nè guardata nè vista osservata nè tanto-meno scrutata che se no s’incazza a morte.
Tornando alla Coop. Ore dieci, più o meno, del sabato mattina…
Avete mai fatto la spesa il sabato mattina? alle dieci, e quindi nemmeno in un’ora da affollamento congiunto, sembra che il mondo intero si dia appuntamento tra il latte scremato, le gallette di riso e l’ammorbidente.
E’ vero, fidatevi. Se volete incontrare la dirimpettaia che sta sul vostro stesso pianerottolo (ma che non incrociate da un secolo); la vostra compagna di classe delle elementari, la prof di vostra figlia che alle medie non le ha voluto dare l’otto in educazione fisica, l’amico fratermo di vostro padre quello che ha avuto un ictus ma se l’è cavata, il vostro collega-di-turno, il vostro ex finalmente ammogliato e con pargolo-grissino-in-mano per farlo star zitto, andate alla Coop verso le dieci di sabato.
E’ garantito che ci troverete tutti coloro che avete perso di visto per il motivo più ovvio: non li volevate (più) vedere.
Io non ricordavo l’interno-Coop il sabato mattina. Probabilmente erano millenni che non lo bazzicavo. Io, di solito, vado alla Coop quando chi ha fame pranza (l’una, una mezza, le due, le due e mezza). Metto le cuffiette dell’iPod nelle orecchie, non prendo mai il carrello grande (mi basta-si-fa-per-dire il cestino con le rotelline) e mi scapicollo nel reparto frutta per prendere carote e valeriana e capuccio. Poi piglio il biglietto per il pane, mi stanco di aspettare quei trenta secondi di rito, butto il biglietto e afferro al volo una pessima baguette decongelata reinfornata che rischia di diventare un randello nell’arco di un morso di fame. Poi percorro da lontano il reparto gastronomia, prelevo tre quattro confezioni di affettato, faccio il pieno di latte yogurt e cioccolato e vado verso la cassa. Una rapida occhiata al carrello analcolico mi manda in leggera depressione, così torno indietro, afferro due birre e un prosecco e riemergo alla penisola-casse. Casse veloci. Perché la spesa, come il resto (quasi tutto) del resto, per me va fatta veloce.
Passo i pezzi sul lettore, insacchetto, pago e esco dal supermercato senza aver mai totlo le cuffiette (che se mai qualcuno mi avesse salutato senza sbracciarsi non l’avrei neppure sentito). Qualche volta (raramente, per fortuna) devo tornare sui miei passi, perché la borsa biodegradabile della Coop si è rotta, ho seminato mezzo bottino per strada sentendomi tanto Pollicino e quindi devo sgambettare verso l’auto, aprire il cofano cercare una borsa alternativa, raccogliere le merci seminate e cercare di condurle là dove porta la finta necessità: vale a dire a casa.
Cosa c’entra tutto questo con mia figlia? nulla. Apparentemente. Voglio dire: se dovessi, ma proprio dovessi andare alla Coop per acquistare un genere di prima necessità (affetto e bellezza filiale) be’, sì, dai, sarei anche disposta ad affrontare le paludi insidiose di un supermercato del sabato mattina (tutti in fila al banco del pane, tutti in fila al reparto gastronomia, tutti a insacchettare frutta, tutti in fila alle casse, tutti allineati al parcheggio, tutti a sorridersi e a chiedrsi ciao come va che è davvero un evo che non ci vediamo). Ma per fortuna questo non è necessario. Perché mia figlia non l’ho presa dallo scaffale dei latticini. L’ho cercata fuori dalle offerte speciali, dagli articoli in promozione, dai prezzi civetta, dai battiti di palpebre della pubblicità. L’ho presa senza nemmeno sapere che visino strepitoso avrebbe avuto, che sorriso non sorriso quando è rabbuiata, che profumo di macedonia di parole mi avrebbe versato addosso umor pannoso permettendo. A dire il vero, mia figlia non l’ho nemmeno presa. E’ stata lei a scegliermi, mentre ero lì, imbambolata, smarrita, un po’ disorientata (al solito) a guardare la gente in fila e magari pensavo che se c’è una ragione per mettersi in coda di fronte a un qualunque registratore di cassa non è perché ti manca la Girella.