La felicità di Anna
C’è qualcosa nel Diario di Anna Frank (lo dovrei rileggere: me lo riprometto ogni anno, sia nel giorno della Memoria, che nei giorni successivi) che riempie di dolore e di speranza, di lacrime e di gioia. Insomma: di vita.
C’è qualcosa nelle parole di questa ragazzina, che non sapeva di sicuro che il suo diario, scritto in una soffitta, solo per se stessa, sarebbe diventato il secondo libro più letto al mondo dopo la Bibbia, che continua a commuovere e cioè a (far) vivere, dentro e fuori di noi. Dentro e fuori dalla sua storia.
Sentite questa: "Sono felice di natura, mi piace la gente, non sono sospettosa e voglio vedere tutti felici e insieme". Quando Anna parlava di felicità aveva 13, 14, 15 anni. Più che parlare di felicità, ne scriveva a Kitty, alla sua amica invisibile accartocciata dentro le pagine del quaderno che le aveva regalato suo padre; ne scriveva a se stessa. Lo scriveva a noi.
Anna è morta a 15 anni, nel campo di concentramento di Bergen Belsen. Ed è strano, se ci pensate, che la sua idea di felicità, la sua convinzione che la felicità esiste e che "l’uomo è buono intimamente" non siano morte con lei.
Magari Anna aveva ragione: la felicità esiste, nonostante l’uomo. E l’uomo, per quanto a volte così tragicamente stupido, è buono, intimamente.
Ciao, Anna.