Cosa vuol dire fare il giornalista
No! Non mi si venga mai mai mai a dire che i giornalisti godono di fronte ai fatti scandalistici.
Che ci sguazzano nelle notizie. Che non aspettano altro che uno scoop per avere un orgasmo.
La Fornero non vega a raccontare che "basta una parola fuori posto e quella diventa un titolo". La Fornero ha accettato (previa ricompensa) di fare il ministro: lo faccia senza prendersela con i giornalisti.
Per carità: in tanti anni di lavoro (perché fare il giornalista è un lavoro, e non affrontiamo il tema-compenso) ho incontrato dei giornalisti (soprattutto vice vice capo redattore) di una cafonaggine e di una sterilità da laboratorio di ricerca. La cafonaggine e la sterilità intellettuale comunque abergano ovunque e quindi consideriamole come inevitabili sassolini da scalciare.
La verità è che la maggior parte dei giornalisti che conosco lavorano con impegno, passione, intromissione. Si fanno intromettere dalle notizie di cui devono scrivere: entrano, per lo più, dentro i fatti, le parole, l'animo, la tensione, il dolore o la felicità dei protagonisti di cui parlano.
Prima di scrivere, un giornalista vive, nella sua testa, nel suo cuore e soprattutto nella sua pancia, il destino degli altri.
Accantona il suo io e mette al centro del suo scrivere un altro, un'altra storia. Che non è la sua. Non è la storia che ognuno di noi ha: non è la storia che ci accompagna al bar, al supermercato, sotto le coperte.
Oggi non sono incazzata (sì: magari un po'). Oggi sono delusa e frustrata. E ho l'ardire di scrivere il perché.
Seguitemi, se volete.
Prima dell'estate viene a trovarmi in redazione a OggiTreviso (e Il Quindicinale) un uomo. Mi chiede un appuntamento. Deve parlarmi. Mi spiega rapidamente di cosa. E' garbato, corretto. E ha bisogno di incontrarmi. Io coniugo la mia vita quotidiana (figli, lavatrici, spese, zoologie di condominio, imposte da pagare, relazioni familiari, eccetera) con i richiami legati alla mia professione di giornalista. Sbatto la tovaglia, lascio i piatti nell'acquaio, incontro la persona che ha chiesto di vedermi.
In redazione trascorriamo insieme un paio d'ore.
Non ho cercato l'interlocutore che mi stava davanti. E' stato lui a insistere per incontrarmi. Ascolto la sua storia e ne resto turbata, afflitta. La storia che mi racconta, qualche anno prima, era stata oggetto di cronaca; aveva riempito le pagine dei quotidiani locali. Lui, il protagonista, era stato incarcerato per una vicenda che aveva a che fare con una violenza sessule. L'uomo che mi stava davanti aveva vissuto un'odissea e me la stava raccontando, con il dolore e l'intensità e la verità che riusciva a trasmettere.
La mia reazione? Ho sofferto, con lui. Poi gli ho detto, da giornalista, che avrei pensato alla sua storia, che la faccenda era delicata, che andava eventualmente trattata con sensibilità.
Magari avevo tra le mani uno "scoop". Non l'ho manipolato. Ho lasciato – più volte – che la storia si affacciasse alla mia mente con il turbamento e il dolore con cui mi era stata proposta.
Non ho scritto nulla.
Una settimana fa, il mio inetrlocutore mi cerca di nuovo. Lo ringrazio, per questo. Vivevo, in qualche angolo della mia mente, una sorta di senso di colpa per non averlo più contattato.
Lui mi lascia in readzione un libro. Ha scritto la sua storia. L'ha pubblicata, nero su bianco. In copertina ci ha messo il suo nome.
La sua storia non è più una "confidenza", una dichiarazione tra le pareti di una redazione. E' un'autobiografia. Leggo il libro, voracemente (perché è scritto bene ed è autentico). Lo leggo di sera, mentre fatico a mettere a fuoco le lettere e detesto me stessa per non essermi ancora convertita al kindle, a un tablet che mi permetta di leggere anche quando la luna è diventata un apostrofo fluo dentro la parola "buonanotte".
Impiego – tra una lavatrice, un'intervista, un cumulo di operazioni quotidiane – una settimana a leggere il libro. Quando arrivo a pagina 360, cioè alla fine, chiamo l'autore e gli trasmetto la mia commozione (come avrebbe voluto fare il Giovane Holden).
Gli dico che la sua storia è vera davvero. Che vorrei aiutarlo a promuoverla (lui sta per presentare il libro nella biblioteca civica del comune dove vive).
Mi metto al computer e scrivo. E lascio decantare le parole. E tento di tradurre le sensazioni che ho provato parlando con il protagonista della storia e poi leggendo la sua vicenda, in frasi sospese all'equilibrio della mia, della comune, sensbilità.
Incontro l'autore del libro. Gli leggo il pezzo, gli chiedo di farmi avere una foto perché il servizio che lo riguarda ha bisogno di un'interfaccia iconografica.
Lui è perplesso, lo ammetto. Gli ricordo che il suo volto appare sulla quarta di copertina del libro. Che il suo nome è in copertina, che lui sta per presentare il libro a una platea di qualche centinaia di persone.
Mi saluta, mi ringrazia commosso. Manda la sua foto in redazione.
I tempi per la pubblicazione stringono.
Andrea impagina il pezzo. Lo correggiamo, lo aggiustiamo.
E' pronto per la stampa.
Penso di aver scritto un buon pezzo, e non mi importa quasi più di aver trascurato mio figlio o la casa o altri impegni di lavoro che mi stavano a cuore.
Sono (anche) una giornalista o no? il mio mestiere mi piace, o no? Sì: mi piace. E so che anche se mi fa stare in ansia, se mi toglie ore di sonno, se mi fa scordare cose indispensabili (dove ho parcheggiato? ho pagato l'Imu?) credo in quello che faccio.
E non è perché devo dare eco a una notizia sensazionale o sensazionalistica. E' perché devo dare voce alle persone, alle loro storie che faccio questo lavoro, accucciando la mia storia nelle pieghe di una quotidianità che magari richiederebbe l'attenzione che merita e che, spesso, non ha.
Poi arriva la telefonata. La persona in questione si scusa: non vuole l'articolo. Non vuole la foto. Non vuole che la sua triste storia abbia eco.
– E il libro che presenterai?- gli chiedo- Il tuo libro non avrà comunque un'eco mediatica?
La sua risposta è comprensibile. Fa leva sulla necessità della discrezione e dell'oblio.. Sul desiderio di non turbare chi è stato coinvolto nella vicenda.
Mi si chiede di non scrivere niente. Di cestinare tutto: il mio lavoro, ma anche (soprattutto) la mia tensione, il mio tempo, la mia fatica. La mia immedesimazione nel dolore.
Rispondo: Va bene.
E chiamo Andrea in redazione, gli dico di fermare l'impaginazione, di rifare il menabò. Di cancellare ore del suo lavoro.
Questo è il mestiere del giornalista.
Questo.