Giù, come le doline carsiche
Ieri sera ho fatto presente a Daniele Berti, il mio happiness coach (Berti ha inventato la Palestra della Felicità: se siete curiosi cercatela su fb o su google), che il programma di allenamento con cui cerca di avvicinarmi al concetto, per lui raggiungibilissimo, di felicità non funziona. Non funziona nemmeno a parlarne.
Ho detto a Daniele che la felicità si allontana da me. Come una meta burlona.
Tu sei lì che osservi da lungi la felicità, magari la intuisci, credi di poterla possedere, ipotizzi che abbia consistenza emotiva. E invece lei si allontana. Burlona. Tu, la felicità, la insegui (il termine è esatto, in questo caso) perché l’hai conosciuta. Non troppe volte, certo. Appena qualche volta. Ma l’hai conosciuta, presa a braccetto, sbaciucchiata, accarezzata. E allora – poiché il contatto ti è piaciuto – cerchi di ri-conoscerla, qualche volta, non troppe volte, certo.
Sono sicura di aver conosciuto e riconosciuto la felicità in una serata di pioggia, un inverno di tanti anni fa. Ero ragazzina e, sotto la pioggerella, attraversavo piazza Sant’Andrea a Vittorio Veneto. Ero andata a prendere il pane, avevo in mano il sacchetto (che, ovviamente, si stava tutto inzuppando) e non avevo nessun motivo particolare per essere felice. Non festeggiavo il compleanno, non avevo degli amici intorno, nessuno mi aveva fatto speciali complimenti, non avevo preso un bel voto a scuola, non ero innamorata. Non avevo nessun motivo esterno a me stessa per sentirmi felice, eppure – a distanza di anni – ricordo di aver pensato che in quell’istante io felice mi sentivo davvero.
E allora? niente, tutto qua. Mi sono sentita felice, ma era una felicità diversa, esterna a me stessa, anche quando sono nati i miei figli o quando sono nati i miei libri. O quando ho fatto ridere e sorridere qualcun altro, specialmente uno o tanti bambini.
Ora mi pare di non ruscire più a far sorridere nessuno. Ho l’impressione che la tristezza o il vuoto che a volte, forse troppe volte, sento dentro sia l’unica emozione (pessima emozione) che riesco a trasmettere agli altri.
Mi sento giù, come le doline carsiche, come le catacombe di San Sebastiano, come il locale-caldaia tanto per restare nei paraggi domestici.
Uff. Mi sa che il mio coach deve ridere seriamente il mio programma di allenamento.