La festa (o la testa) della donna?
Eh, già. Eccomi qua.
Sono le otto più o meno (non ho il tenpo di fare una media tra gli orologi di casa che segnano ciascuno un orario diverso) e ho fatto la lavatrice. Anzi, no: la lavastoviglie. Ho cenato con mezza pannocchia lessata, spiluccando la pasta al burro e parmigiano dal piatto di Umby (che ha pure la febbricola, così mi piglio il suo virus). Ho guardato con una punta di scetticismo, invidia, irrriverenza, indifferenza (non necessariamente in quest’ordine) la biancheria che da quattro/cinque/sei giorni (non ho il tenpo di tenere il conto delle albe e dei tramonti) sventola appesa al filo del mio terrazzo (sono quasi certa che non si tratti di biancheria e basta: il broncio asciutto sembra avere connotazioni gravemente metaforiche). Ho sbattuto la tovaglia sul tetto, sperando che qualche posata appuntita (coltello, forchetta) non caracollasse dal quarto piano insieme a qualche innocua briciola di pane raffermo (quello che – in genere – abita la mia tovaglia). Ho sospirato. Leggermente, non a pieni polmoni perché – nel frattempo – mi è arrivata l’ennesima telefonata di lavoro: quella che diceva Sì, insomma, così così, può andare. Quella che proprio non ti dà il colpo di grazia ma nemmeno un colpetto di sostegno psicologico: ti squilla e tace come un campanello d’allarme. Che senti solo tu (ed è davvero poco per preoccuparsi).
Allarme?
Allarme, perché domani – dicono le mie fonti (che poi sono fonti universali) – cade (a pezzi, presumo) la Giornata della Donna. La festa della donna. Mia mamma ci ha pensato in anticipo: due giorni fa ha regalato a me e mia figlia Stefy un rametto di mimosa: gialla e profumata come solo la mimosa sa essere, nella sua stagione. Tra me e mamma (mia figlia è in letargo influenzale e ha chiuso le porte al mondo, fatta eccezione per Sky cinema e Skype alla voce: Irene) si è acceso il dibattito: Il rametto di mimosa, una volta sistemato nel vaso, va messo a galleggiare nell’acqua o no?
Certi dubbi dovrebbero restare tra la linea telefonica, il vaso di non-cristallo e il silenzio domestico. Ma io gli do eco. In fondo: che m’importa? La lavastoviglie sfrigola e centrifuga, le telefonate di lavoro sembrano conoscere una sosta, la biancheria fa quello che le pare. E io penso che. Che questa festa della donna arriva a perdifiato: il mio, il nostro. Quello di tutte le donne meravigliose che conosco e che non ho il tempo, la forza di chiamare. Prendi Francesca (l’amica giornalista/scrittrice che adoro e che mi fa preoccupare perché parla di tremori, sudori e di una borsetta abbandonata a Barcola); prendi Daniela (la mia inenarrabile cugina che mi manda una mail a cui vorrebbe avere almeno una risposta e che io segno come non letta perché penso debba avere una risposta come si deve); prendi Carmen (che mi dice se sono dimagrita perché magari mi vede stanca cotta alle dieci del mattino); prendi Federica che pensa alla festa dell’Italia e non a una donna in carne e affanni; prendi…prendi persino mia mamma che si chiama Margherita e che regala mimose alla vigilia della vigilia di una festa per la quale, no, non perdo la testa. Ma solo perché. Perché proprio non me lo posso permettere: c’è il telefono che squilla, mentre la lavastoglie sfrigola e la biancheria sventola…