La “nota” ai tempi del cellulare
Se in questo blog annotassi (solo) i tumultosi moti del mio animo avrei bisogno di grafici. Che so…di diagrammi di flusso…di istogrammi…di linee cinetiche con direttrici imprevedibili.
Invece, ma guarda un po’, in questo blog posso permettermi di annotare (avrei voluto scrivere "annidare") fatti e fattacci, tangibili e quasi per nulla psichici e tutto sommato poco inscrivibili in reticolati-di-dati.
Posso permettermi di riferire a parole – segni di un codice linguistico difficilmente incolonnabile (avrei voluto scrivere "incastonabile") – cose che proprio non riuscirei a classificare, a posizionare tra un’ascissa e un’ordinata.
Vedi questa, per esempio.
Oggi, da Trieste, mia figlia Stefania mi manda un messaggino skype: "Hai visto la nota di Umbi"?
Umbi (ragguaglio i sei lettori) è mio figlio; ha 14 anni; un ciuffo che gli copre un occhio; un piercing sulla gengiva; una pagella da encefalogramma piatto (i voti presi finora vanno dal 2 – latino – al 5 – italiano, cioè la sua lingua madre); un interesse per la lettura sforacchiato quanto una fetta di emmenthal; un’unica vocazione non manifesta: quella per la fotografia, digitale-ovvio).
– No. Che nota?
– Questa.
Mia figlia Stefania mi manda via skype, la nota che oggi Umbi ha preso a scuola. E’ la fotografia di una annotazione, scritta sul registro di classe da un’insegnante, in cui si rileva che Umbi (e relativo cognome) oggi – vestito da Babbo Natale – ha simulato una sparatoria in classe.
D’accordo: la nota dice che il fattaccio è successo durante l’intervallo, ma il particolare è irrilevante. Umbi si è beccato una nota. Imoti tumultuosi del mio animo si fanno tangenti inviperite. Subisso mia figlia Stefania di domande. Ma come? ma quando? ma perché?
E lei, che al liceo non ha mai beccato una nota, risponde candida: "Però, dai: è simpatico!"
Simpatico come un attacco di appendicite, le rispondo. Somatizzando(lo).
Con la nota, fotografata sul monitor del mio computer, strozzrei mio figlio. Peccato che sia già uscito, che sia emigrato verso il centro città in compagnia di un quartetto di amici/che con il piercing sul naso, il ciuffo che copre un occhio, l’aria di chi ha sempre l’aria di dire "io non c’entro", anche se nessuno li ha accusati di niente.
Non mi resta che stare lì, come un aerogramma (leggi: grafico a torta: 80% tendenza all’autocommiserazione; 10% senso di colpa; 5% senso di impotenza; 3% sete; 2 % voglia di chiudere gli occhi e fingere di non vedere-sapere) e chiedere a mia figlia come abbia fatto, lei, a ricevere a Trieste la nota che mio figlio oggi ha preso a Vittorio Veneto (Treviso).
Risposta: "Me l’ha mandata un suo amico, che l’ha fotografata col cellulare"
Chiaro? Be’, sì. Più o meno. La nota al tempo del cellulare ha il destino di un gregge al tempo della transumanza ("Settembre andiamo/ è tempo di migrare") non si ferma all’alpeggio della cattedra: viene fotografata, inviata via mms; ricevuta da un tot di utenti che a loro volta la inviano nell’iperspazio più o meno manducabile. Alla faccia della privacy, della contestualizzaione; della trincea dei controlli che la scuola vorrebbe mettere in campo.
Ma, attenzione!, io non critico (affatto) questa fuga-di-notizie (e annotazioni, in questo caso). Io critico mio figlio e la sua sparatoria simulata, oltraggiata dal costume da Babbo Natale.
E un po’ me stessa. Per tutta quella fetta di autocommiserazione, così indigesta.