Maturità tà tà
Tanto per dirne una: tra un paio d'ore nonsoquanti studenti saranno lì a sudare (si fa per dire: la temperatura si è purtroppo abbassata) sul temino di maturità.
Che non si chiama più maturità da un pezzo anche se tutti continuano a chiamarla così.
Non so se sia un vezzo/vizio tutto italiano (presumo di no) quello di ribattezzare ruoli, situazioni, professioni e fenomeni in genere.
L'esame di maturità (minuscolo, apposta) da un po' di anni è diventato, per il ministero e via dicendo, un "esame di stato". La maturità è stata mandata in soffitta sulle circolari ufficiali. Ma ovviamente resta viva e vivace nel pensiero e nella parlata. L'esame di stato resta per tutti l'esame di maturità, checché ne dica il ministero.
Non so proprio che scrivere, vero?
Vero. Riempio questo questo post, perché devo aspettare che salga il caffè.
Comunque, la maturità (massì, chiamiamola così) ha tenuto banco su tutti i media nei giorni scorsi. Con le solite previsioni: daranno Pascoli? Ungaretti? D'Annunzio?
I Grandi (e i Piccoli) autori della nostra letteratura diventano numeri-al-lotto alla vigilia degli esami. Nomi che aspettano di essere estratti.
A dire il vero sono nomi-in-vista-dell'esame anche durante l'anno. Il quinto anno di superiori, quello (aridaje) della maturità.
I Grandi non vengono letti perché sono Grandi. Perché ci parlano oltre le parole. Oltre la storia. Oltre le stagioni immutabili dei tempi che cambiano. Non vengono proposti perché ci emozionino (e lo fanno, eh?), perché ci diano occasioni di riflessione (ah! ecco: questo l'ho sempre pensato anch'io), perché ci danno piacere, cioè: felicità. Vengono letti/studiati/analizzati/commentati/vivisezionati tra i banchi soprattutto perché "se poi quello capita all'esame e non lo sai sono guai". A scuola, per lo più, la letteratura diventa funzionale all'esame finale. Un mezzo, uno strumento per acchiappare il diploma. E chi s'è visto, s'è visto.
Quindi io abolirei la letteratura dalla scuola. Per evitare del fare del male. Alla letteratura e alla scuola.
Facciamo così: quando i ragazzi entrano in classe, aprono Facebook. Leggono e guardano quello che hanno postato gli altri. Postono loro stessi un selfie. I più creativi scrivono pure qualcosa. I più "maturi" mentre scrivono capiscono che non trovano le parole giuste. Entrano in rete, s'intrufolano nella ragnatela di informazioni che il web dà. Fanno incontri. Pure con i Grandi, se sono fortunati o intuitivi o capaci di orientarsi. Leggono, prendono a prestito, rubano (chi diceva che un grande scrittore non è colui che si fa ispirare da un altro, ma quello che ruba direttamente?) e scrivono. Cosa? Quello che gli viene in mente. Quello che gli urge dentro. Quello che gli viene di getto. Quello che credevano di non poter scrivere mai, se non gli fosse stata data quest'opportunità.
E, alla "maturità", fanno quello che hanno fatto tutto l'anno. Aprono Facebook, postano un selfie, scrivono Quello che gli viene a tiro.
Tutto qui. Per cui la mia proposta è questa. Alla "maturità" anziché un saggio breve sic, un articolo di giornale, l'analisi di un testo poetico eccetera, chiediamo ai ragazzi di aprire Facebook. La consegna potrebbe essere questa: Scrivete qualcosa.