Non guardo la tivù!
Non so se sia il caso di (ri)ammettere che non guardo la tivù.
Ogni volta che qualcuno mi dice se ho visto quel tal personaggio in quel tal programma televisivo, rispondo (con sincerità disarmante) che no, non ho visto nessun personaggio in messun programma perché non guardo la tivù.
A questo punto l'interlocutore, qualunque sia, mi risponde che neanche lui/lei guarda mai la tivù, però gli è capitato di vedere che.
E a questo punto l'interlocutore mi racconta quello che non ho visto.
E a questo punto mi sento impotete come uno shampoo antipulci che non uccide le pulci.
Vorrei rribadire che "a me non capita di vedere la tivù", che la tivù io non la guardo davvero e che se ho scelto di non guardarla mai è perché, attraverso l'esperienza diretta, mi sono resa conto che la tivù non ha niente da mostrarmi, niente da dirmi, niente da offrirmi. Se proprio volessi darci un'occhiata, nessuno me lo impedirebbe. E' che non voglio.
E mi sento incapace di reagire quando qualcuno mi racconta ciò che non ho visto: mi sento, per garbo, cortesia, disinformazione televisiva coatta, di dover dare ascolto a una specie di centralinista che mi vuole a tutti i costi fare un'offerta, propormi un contratto telefonico, un abbonamento.
Con la differenza che il centralinista lo posso liquidare fingendo di essere la badante ucraina di casa, l'informatore televiso no. Lo devo ascoltare. Perché magari è un amico, un collega, un parente.
E comunque mi succede che dopo aver ascoltato di malavoglia il resoconto, per quanto striminzito, di un intervento tivù, la voglia di guardare la tivù non mi torna per nulla.
Forse sono fatta male. O forse ho semplicemente visto già troppa tivù. Non mi sono persa un Lassie, un Sandokan, una puntata della Freccia nera o delle "Stelle stanno a guardare". Sono cresciuta con la tivù dei ragazzi che apriva le saracinesche alle sei e che propinava film tristissimi in bianco e nero. Quando mi sono accorta, più o meno in coincidenza con la tivù a colori, che esisteva Happy Days, ho pensato che si potesse ridere davanti a un piccolo schermo. Ho pensato che Fonzie fosse il vero mito dei nostri giorni e quando sono stata in America (c'erano le torri gemelle che svettavano sullo skyline di NY) ho pensato che più che in una grande mela ero entrata nella famiglia Cunningham, quella di Ricky.
Poi ho alternato la vita quotidiana con Capitol o Quando si ama. Nemmeno io mi sono sottratta alla visione di 500 puntate di soap opera. Finché, non ne ho avuti occhi e orecchie piene. A un certo punto mi sono accorta che, per guardare la tivù, rinunciavo ad altro. Anche solo alla lettura di un libro. Ho spento lo schermo e ho acceso altro.
Ora non so esattamente cosa ho acceso. Non ho luci o transistor dentro la testa. Ho però la convinzione che se voglio saperne di più del mondo, ho tanti di quegli strumenti a disposizione che la tivù resta la Cenerentola sciocca. Quella che non solo perde la scarpina, a mezzanotte, ma anche la zucca, il treno, il tram.
Percià se un interlocutore qualsiasi mi dice se ho visto il Cavaliere in questo e quel programma. Io vorrei rispondergli che l'ho letto. Che don Chisciotte nel mio cuore è il mito letterario che ha sostituito Fonzie durante il mio scivolare inserorabile dallo schermo alla pagina, dal cicaleccio alla parola che profuma di letteratura.
Solo che poi l'interlocutore mi dice che il cavaliere è un altro. Che non ha Sancho Panza appresso, che non ama Dulcinea del Toboso, ma Francesca Pscale.
E la cosa mi irrita, perché se Cervantes redivivo ha scritto il seguito del suo romanzo per farne una sceneggiatura televisiva, allora vuol dire che pure lui ha toppato. che anziché contro i mulini a vento, il suo eroenoneroe avrebbe dovuto combattere contro le antenne televisive. E puntargli contro un cannone, non un canone.