Quattro bare bianche e un orsetto
Lo dico subito, per questione di credits: ho rubato l'immagine allegata a Repubblica.it.
Lo dico subito, per questione di coerenza: non riesco a sorridere mentre scrivo, come faccio di solito.
Mentre scrivo, penso che non dovrei neppure scrivere. Penso che le parole (le mie, prima delle altre) siano fuori luogo.
Non c'è una parola, penso, che possa tradurre un dolore, uno scoramento grande quanto il dolore e lo scoramento che trasmette l'immagine che ho rubato.
Non c'è Istat, in questo momento, che possa radiografare il nostro paese (il nostro mondo?) come l'immagine che condivido.
Le bare sono allineate in una stanza anonima. Qualcuno le ha ornate con un fiore, o con un orsetto.
Sono 111. E ciascuna di esse contiene un uomo, o un bambino.
Sono l'immagine di un punto fermo, nel fluire dela vita. L'emblema del "traguardo" a cui è arrivata la società. L'immagine (lo sentite?) è piena di silenzio. E' un'eco di vuoto.
Per questo penso che non dovrei scrivere nulla.
Eppure non riesco a fermare le mani sulla tastiera. Perché tutte queste lettere/segni che trovo sotto le dita sono flebili grida, che oltre il vetro del silenzio e dell'ipocrisa e dell'indifferenza, hanno bisogno di farsi sentire.
Per nulla magari. O per quegli uomini, quei bambini che in vita hanno cercato una via d'uscita dalla morte, senza trovarla. Per quegli uomini, quelle donne, quei bambini che la cercheranno sempre. Inutilmente. E per noi stessi. Per tutte le volte che ignoriamo quell'eco di vuoto che sta dentro, non solo fuori di noi.