Riflessioni sulla morte
“Non ho passato né futuro. Se resto c’è un andare nel mio rimanere; se vado, c’è un restare nel mio andarmene. Solo Amore e morte cambiano tutto.”
(Khalil Gibran)
La morte ha bussato alla mia porta due volte in pochi mesi: a febbraio è mancata una mia cara amica, a maggio un parente molto vicino.
Ho avuto la possibilità, entrambe le volte, di poterli vedere e salutare, di poter partecipare alle cerimonie funebri, di poter esprimere il mio dolore, insieme ad amici e familiari. Sembrano comportamenti usuali, modalità di celebrare la persona defunta che ben conosciamo. Ci si veste a lutto, cercando gli abiti più consoni per l’occasione, si danno (o si ricevono) le condoglianze, si piange e ci si abbraccia, cercando la vicinanza delle persone che ami, accogliendo la compassione (cum – patire, sentire insieme) di tutti coloro che, insieme a te, soffrono di questo distacco.
Quanto è accaduto a maggio, però, è stato un evento particolarmente straordinario. L’impossibilità di sentire, fisicamente, le persone vicine, di abbracciarle, l’obbligo di mantenere le distanze anche con i propri cari almeno nei luoghi pubblici, la necessità, a volte, di indovinare chi si celava dietro la mascherina, mi ha fatto vivere questo momento così profondo e tragico con difficoltà.
La situazione sanitaria, che ancora ci sta tenendo fisicamente distanti, dal mio punto di vista, ha rivoluzionato il nostro modo di vivere, sentire, relazionarci. Ho avuto il privilegio di vedere, per un’ultima volta, il corpo di questo mio parente. Si è dovuto chiedere il permesso, e mi sono dovuta vestire adeguatamente con i dispositivi di protezione individuale (dpi, una sigla ormai sdoganata). Si è avuto tutto il tempo necessario per vegliarlo, nella fredda camera mortuaria, in cui dolore e amore si mescolavano. Si è potuto svolgere il funerale in chiesa, come avrebbe voluto, anche se distanziati.
Ho potuto, così, dare esistenza e consapevolezza della fine della vita di una persona a me cara, di vederla e vegliarla un’ultima volta, di toccare con mano, attraverso questo rito importante, il lutto e il dolore per la perdita di un pezzetto di famiglia.
Questa persona, però, ha vissuto gli ultimi suoi mesi in ospedale e, dati i protocolli attuati in risposta al coronavirus, non ha potuto ricevere visite. Ancor di più essere accompagnato dai suoi familiari più stretti alla morte. Ciò mi ha riportato alla mente questa intervista, letta qualche mese fa, in cui si parlava dell’impossibilità, per il lockdown imposto fino a poco tempo fa, di poter solo immaginare la possibilità di fare esperienza del rito della morte e del lutto come noi lo conosciamo. Un’esperienza, sottolineava l’intervistato, il monaco e tanatologo Guidalberto Bormolini, che è connaturata nell’esistenza umana, da quando è iniziato il culto dei morti.
Dall’altra parte, egli affermava, ed io concordo con lui, che la morte è relazione. Dal mio punto di vista si esplica sia riguardo la relazione che ognuno di noi ha con la persona, a noi cara, che sta morendo o che morta, sia rispetto la relazione che abbiamo con le persone che sono rimaste, e che fanno parte della nostra rete, familiare o amicale.
La morte di questa persona mi ha dato l’occasione per ripercorrere il nostro cammino di conoscenza e relazione, fatto di accoglienza e messa in discussione, ha dato la possibilità di (ri)scoprire e rinsaldare i legami familiari, di comprendere e accogliere quanto ci ha donato.
Dott.ssa Elena Toffolo
(foto di Alessio Lin on Unsplash )