Quello che una fotografia (non) racconta
Nguyễn Văn Lém è spaventato. Sono tre giorni che non mangia, il frastuono delle esplosioni e la calura sono insopportabili. La ferita al piede gli impedisce di correre e scappare lontano dalla battaglia e da quella guerra in cui era stato catapultato solo poche settimane prima. Strappato da casa sua, dalla famiglia, dal suo mondo. Costretto ad imbracciare un fucile pesante, estraneo, che non sa nemmeno usare bene. Ed ora un uomo gli urla qualcosa nell’orecchio, e gli punta la pistola alla testa. E lui si chiede perché, perché proprio lui.
Nguyễn Văn Lém è spaventato. Sono tre giorni che non mangia, il frastuono delle esplosioni e la calura sono insopportabili. La ferita al piede gli impedisce di correre e scappare. Gli americani e i soldati del Vietnam del Sud alla fine lo hanno catturato. “Ma solo perché ho finito i proiettili”, pensa. La sua abilità di cecchino non può più salvarlo, ma gli resta la consolazione di aver ucciso con precisione chirurgica ventidue persone, tra soldati e abitanti della città. Ormai la sua ora è giunta, lo sa, lo capisce quando quell’uomo gli urla qualcosa nell’orecchio, e gli punta la pistola alla testa. E per un attimo rivede l’espressione di paura che trasudava dal viso di quella donna, ingrandito nel mirino del fucile di precisione, poco prima che le sparasse. La sua ultima vittima. E si chiede se la propria faccia ora sia simile alla sua.
Due storie, un unico finale, quello che si vede nella fotografia. Quale delle due è più vicina al vero?
Siamo a Saigon, in Vietnam, il 1 febbraio 1968. E’ da poco cominciata l’offensiva dei Tet. Il fotografo americano Edward Thomas "Eddie" Adams si trova lì per conto dell’Associated Press, e coglie l’attimo in cui il capo della polizia del Vietnam del Sud, il generale Nguyễn Ngọc Loan, spara a un prigioniero Vietcong, Nguyễn Văn Lém, giustiziandolo sommariamente. Con questa foto Eddie Adams vinse il premio Pulitzer per la fotografia 1969 e il premio World Press Photo of the Year 1968.
La fotografia illustra quel preciso istante. Ma non racconta ciò che c’è stato prima. Né quello che c’è stato dopo. Non dice la verità, o almeno non la racconta tutta.
Chi era Nguyễn Văn Lém? Una persona costretta a difendere con disperazione se stesso e la propria famiglia dagli invasori americani? Oppure un sadico che nell’uccidere persone inermi aveva trovato la propria dimensione? O magari un semplice cittadino sospettato ingiustamente?
Non è questo il punto: per fortuna ci sono i tribunali per giudicare atti di questo tipo. Forse è più importante intuire che la fotografia è solo un punto di vista sulla realtà, e che a seconda dell’angolazione da cui la si prende può raccontare storie anche molto diverse fra loro.
La fotografia di Adams impressionò l’opinione pubblica americana, rivolgendola contro la guerra in Vietnam. Tutti condannarono il gesto del generale.
Una parziale riabilitazione (ammesso e non concesso che possa esistere per un gesto di quel tipo) venne dal fotografo stesso. Che ebbe a dire successivamente: “Il generale uccise il Viet Cong; io uccisi il generale con la mia macchina fotografica. Tuttora le fotografie sono le armi più potenti del mondo. La gente crede loro, ma le fotografie mentono, anche senza essere manipolate. Sono soltanto metà della verità. La cosa che la fotografia non ha detto è: 'che cosa avreste fatto voi nei panni del generale, a quell' ora, in quel posto e in quel giorno caldo, avendo catturato il cosiddetto cattivo dopo che questi ha fatto fuori uno, due o tre soldati americani?’”
Forse la fotografia avrebbe avuto un impatto diverso sulla società americana e sulla storia, se fosse stata accompagnata da queste parole. O forse no, chi lo sa. Resta il fatto che la capacità selettiva di isolare frammenti di realtà rende la fotografia un'arma potentissima. Caratteristica questa conosciuta (e sfruttata) dalla propaganda di tutto il mondo.
Eddie Adams in un fotografia del 1992 di Harry Cabluck/AP, via Getty Images