La morte è nei paraggi: posare o meno la macchina fotografica?
Un caso di cronaca, lo scorso mese, ha fatto il giro del mondo suscitando parecchio scalpore.
In sintesi: ai primi di dicembre a New York un uomo in una stazione della metropolitana viene spinto da uno squilibrato e cade dalla banchina sulle rotaie: l’uomo non riesce a risalire, e muore investito dal vagone della metropolitana che stava arrivando. Fin qui, sembra solo una brutta notizia, simile purtroppo a molte altre. Perchè quindi lo scalpore? Il quotidiano New York Post pubblicò il giorno dopo in copertina (e con un ampio servizio interno) le foto dei tentativi dell’uomo di alzarsi e risalire sul marciapiede della banchina: un fotografo del quotidiano si trovava sul posto, e aveva immortalato la scena.
La polemica divampata velocemente verteva sul comportamento del fotografo in quei momenti disperati: in molti si sono chiesti se non sarebbe stato meglio provare a salvare la persona invece che assicurarsi lo scoop della morte in diretta. Il fotografo in merito si è sperticato in varie giustificazioni: “ero troppo lontano e non ho avuto tempo di salvarlo” (ma la sequenza e il tipo di ottica usata qualche dubbio lo hanno fatto nascere), “ho provato ad avvisare l’autista con il flash” (ma le foto sono tutte ben composte e inquadrate)…
Cambiamo per un attimo spazio e tempo.
Saltiamo al 1993, in Sudan. Il fotografo Kevin Carter si trova nel campo di una missione ONU. Sta fotografando un bambino denutrito, riverso su se stesso. A pochi metri di distanza dal bambino c’è un avvoltoio che lo fissa, in chiara e paziente attesa di un magro pasto. Kevin aspetta un po’, attende per vedere se l’avvoltoio apre le ali per rendere la scena ancor più drammatica, e alla fine se ne va, lasciando il bimbo al suo destino. Quello scatto gli fece vincere il Premio Pulitzer nel 1994 ma innescò una grossa polemica e Kevin fu fortemente criticato.
"Sudan vulture" di Kevin Carter, premio Pulitzer
Alla domanda su cosa fosse successo dopo lo scatto e se avesse aiutato il bimbo, Kevin non rispose mai. Arrivò a odiare quella fotografia, ne era ossessionato. Il 27 luglio dello stesso anno Kevin si suicidò nella sua auto, lasciando un biglietto che citava tra i motivi della sua decisione la disperazione per tutto quello che aveva visto nella sua carriera di fotoreporter.
Quello che mi fa riflettere di questi due casi simili è il dilemma che può presentarsi a un fotografo mentre fa il proprio lavoro: essere testimone ininfluente della realtà o diventarne protagonista e magari posare la macchina fotografica? Scelta difficile, da valutare caso per caso, secondo le conseguenze che può avere quel “non fare nulla”, e in funzione della propria scala di valori. Voi che dite? La vita di una persona vale lo scoop in prima pagina o un premio Pulitzer? Ammesso e non concesso che fosse in potere dei fotografi salvarle.
Come sono finite queste storie?
L’uomo in metropolitana è morto. Forse il fotografo poteva, o forse non poteva fare qualcosa per salvarlo: il fatto è che sembra non ci abbia nemmeno provato. Non ha posato la macchina. Ma nemmeno nessuno altro dei presenti, a quanto pare.
E il bimbo sudanese? Che fine fece? Ci ha pensato il quotidiano spagnolo El Mundo nel febbraio del 2011 con una sua indagine a dare una risposta (qui in italiano): il bambino sopravvisse sia all’avvoltoio che alla denutrizione. Ma purtroppo morì dopo quattro anni per febbre.