Un pensiero su Vanzina
A proposito della morte di Carlo Vanzina, la scrittrice Ester Viola ha scritto: “I film, quando tutti si ricordano a memoria le battute dopo quarant’anni, si chiamano capolavori. Voleva restare il solito stronzo, invece è venerato maestro”. È una frase che condensa in poche righe quanto Vanzina abbia rappresentato non tanto per il cinema italiano, ma per gli italiani tutti.
Dei suoi film si è detto tanto quando era in vita, soprattutto grandi cattiverie: adesso che è mancato lo scorso 8 luglio, sono già cominciate le prime rivalutazioni post mortem. Un passaggio automatico per tanti: la morte ti dà lustro, mitiga i difetti, dona nuova luce al tuo operato e al tuo onore.
Era facile criticare i film di Vanzina, dopotutto: “Eccezzziunale… veramente”, “Yuppies – i giovani di successo”, “A spasso nel tempo”, ma soprattutto la sequela delle varie Vacanze di Natale non brillavano certo per alti livelli intellettuali, per dialoghi sopraffini, per approfondite caratterizzazioni psicologiche. I personaggi erano guasconi di provincia, milanesi abbruttiti, romanacci sanguigni, le donne procaci, pettorute, isteriche o semplicemente stupide. Rappresentavano il lato peggiore dell’Italia, hanno contribuito al declino culturale del Paese, hanno impoverito il cinema nostrano, pur riempiendo i botteghini. Sono stati oggetto di grandi dibattiti sul “dove andremo a finire” e di analisi sociologiche che dal berlusconismo arrivano all’esaltazione dell’imbecillità e della furbizia, vista per la prima volta come valore da sostenere, perché è con quella che si va avanti più che con l’intelligenza.
Eppure, forse proprio per gli stereotipi che descriveva, la sua filmografia è riuscita a diventare culto, ad entrare con facilità dentro il cuore della gente, o meglio nella pancia. Senza troppa fatica, Carlo Vanzina ha saputo raccontare le debolezze e peggiori difetti del nostro Paese, dall’egomania alla maleducazione, dalla corruzione alla meschinità portandoli agli eccessi, deformandoli attraverso la lente di una comicità becera. Un umorismo tuttavia immediato, fulmineo, in taluni casi scatologico e quindi infantile.
Vanzina parlava al ragazzino mai cresciuto che alberga in molti di noi: quello che ride per gli scherzi di cattivo gusto, per la barzelletta dall’umorismo nero, quello che in breve se ne frega del politicamente corretto, della sensibilità, delle metafore ardite.
Niente cervello, niente analisi accurata: Vanzina era bianco e nero, poche sfumature, tutta sostanza.
Per un certo tipo di spettatore, guardare i suoi film era un vanto come ci si fa vanto della non cultura, di ciò che arriva dal basso e che in basso rimane senza salire, come simbolo di un’ignoranza voluta e cercata e tenuta ben stretta, contro l’altezzosità che si portano invece dietro lo studio, l’impegno e la cultura.
Di certo, è stato a modo suo un preciso conoscitore di ciò che ad oggi viene definito nazionalpopolare. Dentro i suoi film troviamo tutti: i critici, gli snob, il politico, lo scemo, l’imprenditore, il traditore, la gattamorta, lo scaltro, il mafioso, il poveraccio. Tutti sono disegnati in questo grande ritratto della nostra nazione, da cui spesso vogliamo prendere le distanze ma che ci include, tragicamente, e ci indica e ci deride senza filtri, nel bene e nel male.