Il mio film dell’anno
Mettiamo caso che quest’anno non siate potuti andare al cinema. Che nemmeno abbiate letto una recensione, né visto un trailer, né un’intervista promozionale di qualche attore in tivù. Mettiamo poi che abbiate il tempo, solo adesso, di vedere un film del 2013. Uno solo, che magari racchiuda in sé l’immagine di questi 365 giorni, che in qualche modo possa darvi slancio e voglia di riscoprire il cinema nel 2014. Non è una scelta facile. Quest’anno il grande schermo ha prodotto pellicole notevoli e diversissime, da “Vita di Adele” di Kechiche a “Django Unchained” di Tarantino, a “La Grande Bellezza” di Sorrentino, candidato all’Oscar come miglior film straniero. Potreste sceglierne una tra le tante citate nei vari best of 2013 dalle riviste del settore e dai siti specializzati.
Oppure accettare un mio consiglio e guardarvi “Gravity” di Alfonso Cuaròn. Per me, il migliore film dell’anno, per diverse ragioni.
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Perché Cuaròn è un bravo regista, cupo ma pulito, logico ma metaforico. Utilizza la macchina da presa riportandola alla sua funzione originaria: un mezzo di comunicazione che sfrutta il potere delle immagini in perfetta sinergia con la storia narrata, giocando di inquadrature, primi piani e intensi pianisequenza. I suoi movimenti di macchina sono virtuosismi capaci di qualunque azione, superando i limiti della gravità.
- Perché racconta una storia avvincente. Un’astronauta, la dottoressa Ryan Stone (Sandra Bullock), si ritrova dispersa nello spazio dopo un brutto incidente. Deve tornare a Terra. Un ritorno non solo fisico, ovviamente. La lotta che si innesta è di quelle interiori, profonde tanto quanto l’universo stesso, che gioca con più livelli di realtà. C’entrano la metafisica, l’amore, la morte, la religione. Una serie di sottotrame in cui lo spettatore si ritrova immerso e attraverso cui deve ritrovare la strada verso casa, possibilmente vivo.
- Per vedere degli effetti speciali finalmente al servizio del cinema. Cuaròn utilizza il 3D e il digitale senza cadere nella bulimia di effettoni gratuiti, fatti col solo scopo di stupire il pubblico. La tecnologia non è un orpello, ma compenetra nel tessuto narrativo esaltandolo. I fotogrammi reali dello spazio che la stessa NASA ha concesso al regista si mescolano alla storia, incarnando nuovi personaggi: la Terra fissa sullo sfondo, che ci ricorda costantemente ciò che ci definisce e delimita, e l’universo infinito intorno a noi, che mostra di cosa siamo fatti. La dicotomia tra queste due realtà ci getta in uno straniamento che si dipana solo a fine film.
- Perché Sandra Bullock è perfetta. Tormentata e fragile quanto basta da perdersi nelle sue paure e nel contempo determinata e tenace da ritrovare coraggio e lucidità anche in situazioni impensabili. L’astronauta Ryan siamo noi, l’umanità alla deriva in un mondo senza appigli, che si ritrova a fare i conti con il proprio passato, le proprie radici (ma in uno spazio senza atmosfera né punti fermi), costretta a rinnovarsi e riscoprirsi (con inquadrature quasi didascaliche). È un continuo passaggio dal particolare all’universale, un meccanismo che piace tanto a Cuaròn e che abbiamo già visto nell'eccellente “I figli degli uomini” (2006).
Infine, perché aiuta a far pace col cinema. Se pensate che la settima arte abbia già detto tutto quello che aveva da dire, con “Gravity” vi ricrederete. E vi ritroverete nel culmine di così tante emozioni da provare addirittura le vertigini, come foste voi lassù, oltre le nuvole.
Buon anno!
P.S. Una serie di astrofisici e veri astronauti ha smontato punto per punto la vicenda raccontata in “Gravity”. Io credo che un film non debba spiegare la realtà (lo fanno i documentari, e nemmeno sempre), ma essere piuttosto verosimile a essa. Come diceva un grandissimo esperto di cinema: “È come se a Méliès qualcuno criticasse il fatto che nelle sue pellicole si vedono i fili, gli stacchi, i trucchi dei suoi giochi di prestigio (e c’era chi lo criticava davvero!).” Ecco, penso che contestare l’aderenza alla realtà di un film sia un po’ cercare a tutti i costi i fili o, parafrasando, guardare inutilmente quel famoso dito che punta alla Luna.