Ricordare con la testa
Esiste una ritualità importante che negli anni si è concretizzata sul al Giorno della Memoria. È una ritualità che gravita prettamente attorno ai film sul tema, che hanno aggiunto diversi tasselli in quella che oggi potremmo definire come la narrativa dell’Olocausto, in cui troviamo vari prodotti sul tema. Da Schindler’s List a La Vita è Bella, da Il Bambino con il pigiama a righe a Train De Vie, riscontriamo modalità differenti di messa in scena del genere, con chiavi di lettura profondamente drammatiche o altresì amaramente ironiche che provano ad alleviare per quanto possibile l’orrore della vicenda.
La televisione dal canto suo, risponde di solito con la consueta messa in onda di tali pellicole, che ritornano puntuali in questi giorni, talvolta con qualche dibattito sul tema, che peraltro è ancora attuale, così come attuale è una certa ideologia intollerante che serpeggia, anche platealmente, sulle bacheche Facebook, tra i commenti social, fino ad arrivare ai giornali più beceri e alle chiacchiere da bar.
Il problema dunque oggi non è più solo ricordare, ma respingere quella bomba di intransigenza e odio e disinnescarla. Il rischio tuttavia è che una storia, seppur perfettamente costruita, risulti un concentrato di retorica tale da isolare l’emozione solo all’interno della fruizione del momento e che, una volta terminata, nel pubblico non rimanga altro se non il ricordo di un buon film.
Dell’Olocausto è invece bene che non solo rimanga memoria, ma che porti alla spinta di una maggiore riflessione, che le parole pesino realmente sull’anima di chi le sente, talmente tanto da rendere impossibile anche solo il pensiero di una possibile briciola di sentimento intollerante. Ed è altrettanto fondamentale ricordarlo per inserirlo nel più ampio contesto di tutti gli altri genocidi, purtroppo meno celebri, ma ugualmente devastanti per l’umanità, da quello degli Armeni a quello degli Indiani d’America, fino ad arrivare a quello perpetrato in Cambogia da Pol Pot.
Lo scorso ottobre il programma Ulisse, condotto da Alberto Angela, ha trasmesso uno speciale di due ore “Viaggio senza ritorno”, a proposito della rappresaglia al ghetto ebraico di Roma, avvenuta nel 1943 e che ha interessato intere famiglie italiane ebree, poi deportate insieme a tanti altri prigionieri nei campi di concentramento e di sterminio tedeschi. La puntata, di circa due ore, è un concentrato efficace ed antiretorico di ciò che fisicamente hanno passato i prigionieri nella loro lunga traversata verso la morte, ed Angela è riuscito nell’intento di mostrare il dolore dei protagonisti attraverso un semplicissimo ma funzionale svolgimento: ha fatto parlare i sopravvissuti, che all’epoca erano poco più che bambini, e ha mostrato Auschwitz, oggi. Le telecamere hanno inquadrato gli angoli delle camere a gas, percorso i corridoi esterni alle baracche, mostrato la botola da cui cadeva il famigerato Zyklon B. Da un racconto emozionale dunque, si è passati a una spiegazione tecnica, quasi scientifica, sulle modalità di esecuzione perpetrate nel campo nazista.
L’effetto prodotto riesce dunque a toccare pancia e testa, suscitando una reazione inusuale. Si insinua tra le normali pieghe dell’empatia ma è capace di portare chiaramente alla luce la razionale metodologia adottata, e la vicenda dunque non si limita al tanto abusato storytelling, quanto alla fredda ricostruzione dei fatti che, paradossalmente proprio per il suo rigore, raggela e inchioda lo spettatore a una visione quasi paralizzante. Una volta terminato il documentario infatti è difficile riuscire a riprendere la propria quotidianità come se nulla fosse: il silenzio è la soluzione inevitabile, una condizione quasi automatica.
Ed è per questo che questa puntata è riuscita a essere uno dei più alti esempi di servizio pubblico sulla vicenda, eccellente nel saper coinvolgere senza necessariamente giocare col pathos estremo, mantenendo un grande equilibrio tra formalità e straziante contenuto.
Un esempio che la televisione dovrebbe seguire sempre, anche per raccontare la storia delle tante orribili deportazioni del passato, non solo ebree, non solo durante la Seconda Guerra Mondiale. Perché il pubblico si conquista e si istruisce non solo passando attraverso le sue lacrime, ma conducendolo a un ragionamento netto, preciso, a qualcosa che lo faccia prendere una volta per tutte una posizione chiara sull’argomento non perché sia eticamente giusto non essere razzisti e intolleranti, ma perché è disumano anche solo pensarlo, dopo tutto ciò che è stato.