Il film è migliore se visto al cinema?
C’è una questione nata a Cannes quest'anno su cui vale la pena spendere due parole. Il Presidente di giuria Pedro Almodovar ha criticato la presenza in gara dei film targati Netflix “The Meyerowitz Stories” e “Okja”, perché non sarebbero stati precedentemente trasmessi al cinema. Le due pellicole infatti sono state inserite nel circuito della famosa piattaforma col solo scopo della fruizione casalinga, così come avviene normalmente per tutti i titoli presenti al suo interno.
Il caso secondo me apre una serie di interrogativi incentrati sulla legittimità dei film per la tivù rispetto quelli usciti in una normale sala cinematografica. Esiste una gerarchia di qualità? Hanno una dignità diversa? Quanto il luogo in cui vediamo un film contribuisce a creare l’atmosfera necessaria affinché risulti di maggiore impatto, perché arrivi allo scopo prefissato? Le domande sono necessarie e pongono in sé interrogativi sul futuro della fruizione spettatoriale con l’avvento delle nuove modalità di fruizione.
Il rituale della visione cinematografica possiede connotazioni sacre: il buio, la condivisione collettiva, lo schermo gigante (cui via via si sono aggiunti innovazioni come il dolby sorround o il 3D). Oggi tuttavia si può godere di una storia anche da salotto di casa, anzi, molto spesso l’intimità della propria abituazione contribuisce a un coinvolgimento maggiore, nonostante la televisione ci abbia abituato a una fruizione frammentata, sia per l’inserimento della pubblicità che per nostre personali esigenze. Oggi lo spettatore è molto più libero di disporre come vuole del suo tempo per vedere un programma televisivo, una serie tv, un film. E, sebbene qualunque regista sconsigli di smembrare la visione della sua opera, è comunque il pubblico che decide le modalità attraverso cui godere di un prodotto mediale.
Ignorare tale evoluzione è il sintomo di un’indifferenza al mondo contemporaneo che il cinema non può permettersi, nemmeno a Cannes. Ma è giusto porsi degli interrogativi. In fondo è chiara la posizione di Almodovar: quella dell’artista, di colui che vuole difendere il valore di un prodotto che, prima di appartenere al pubblico, è un oggetto d’arte che nasce per avere una specifica cornice.
Chi ha ragione dunque? Netflix o Almodovar? Il dibattito è aperto.
Dal canto mio, le ragioni economiche che spingono un gigante come Netflix a partecipare a Cannes ovviamente prescindono da qualunque controversia artistico-filosofica: il futuro dei Festival quindi apparterrà anche film destinati al consumo casalingo, ché la tecnologia non si arresta per certe diatribe. D’altronde il modo in cui vediamo un prodotto non ne compromette il senso. Il senso semmai si compromette quando non ci saranno occhi per vederlo, quando non esisterà un pubblico interessato a scoprirlo. E che sia col cinematografo o col televisore, sarà comunque quello il vero fallimento.