Il marcio della moda: The True Cost
In Italia non è stato ufficialmente distribuito se non sulla piattaforma Netflix, eppure il documentario “The True Cost” meriterebbe una visione accurata da parte di tutti i consumatori. Il film, del 2015 e del regista Andrew Morgan, è una denuncia alla cosiddetta fast fashion, la moda low cost delle grandi catene straniere che negli ultimi anni sono sbarcate anche nel nostro Paese, esempio di globalizzazione del vestiario a cui ci siamo presto abituati.
Qual è tuttavia il prezzo reale delle magliette, dei jeans, delle felpe che ci adocchiano dagli scaffali e dalle vetrine? Il prezzo sociale, ambientale e morale? “The True Cost” spiega tutto questo, intervistando esperti del settore, stilisti, economisti, psicologi e portandoci in Bangladesh e in Cambogia, gli Stati dove le grandi catene di abbigliamento delocalizzano le loro fabbriche grazie a convenzioni con i governi locali e sfruttano con la loro connivenza la già precaria vita di migliaia di persone. Uomini e donne, a volte anche bambini, sottopagati, costantemente frustrati dalle pessime condizioni in cui sono costretti a lavorare, pericolosissime, ai limiti della dignità umana. Esempio lampante portato tristemente agli onori della cronaca, il crollo della palazzina di Rana Plaza in Bangladesh.
Il documentario critica aspramente la bulimia dello shopping occidentale contemporaneo, dove non esistono più le quattro stagioni della moda ma le settimane, i giorni, le ore attraverso cui siamo invogliati a spendere, comprare, tentati dal prezzo irrisorio e dalle banali imitazioni delle firme d’alta moda. Un prezzo che paghiamo caro anche a livello ambientale, esaurendo le risorse naturali e spremendo le piantagioni di cotone con pesticidi e veleni che provocano altrettanti morti, malati e dolore. Un sistema che non coinvolge certo solo i vestiti, ma praticamente tutti i settori della nostra società, che ci offre prodotti di cui tutto sommato non abbiamo alcun reale bisogno, ma che troviamo indispensabili per accedere a certi ambiti sociali, per sentirci accettati, per sentirci meglio.
Il mondo descritto, che peraltro contribuiamo ad avvelenare, è lo schifoso scenario dove impera la nostra miseria, qui fintamente camuffata dalle offerte di t-shirt a 4.90 euro, che ci riempiono l’armadio di moda usa e getta facendoci credere benestanti, ma ci impoveriscono il portafogli e, dopo la visione di questo film, di certo anche l’anima.
(qui, alcuni spunti in più, se ancora non vi ho convinto a vederlo)