Joker: l’abbaglio e il capolavoro
È bellissimo osservare l’internet in questi giorni: a dividere la platea è Joker, l’ultimo film di Todd Phillips uscito lo scorso 3 ottobre e vincitore del Leone D’Oro al Festival di Venezia.
E siccome si può dire tutto e il suo contrario, riassumerò brevemente i punti che considerano il film un clamoroso abbaglio e quelli che lo considerano un vero capolavoro.
Il personaggio di Joker non racconta nulla di nuovo.
ABBAGLIO
Se inserito nella linea evolutiva del personaggio portato negli anni sul grande schermo, abbiamo già conosciuto un Joker alienato e alienante, ed Heath Ledger lo ha rappresentato più che degnamente nella trilogia di Nolan Il cavaliere oscuro.
CAPOLAVORO
Se è vero che di Joker disagiati ne abbiamo già visti, è anche vero che questo è l’ultimo anello di una catena tirata all’estremo. È la naturale prosecuzione di un filo conduttore comune. La maschera deforme che accomuna Phoenix a Ledger è tuttavia solo il punto di partenza per raccontare il personaggio: il resto è una biforcazione che da un lato porta alla pura crudeltà dove i confini tra il bene e il male rimangono tutto sommato netti, dall’altro a una discesa inesorabile all’interno del proprio dolore, casualmente (badate bene, casualmente) condiviso da un’intera società.
La genesi del cattivo è la solita.
ABBAGLIO
Emarginazione, rabbia, esplosione violenta. I cliché si sprecano e l’equazione malato di mente=pazzo reitera uno stigma che non aiuta l’idea sociale del disagio psichico.
CAPOLAVORO
Finalmente la malattia mentale qui ha un respiro ampio e profondo, lungo l’intero arco narrativo. Ed è probabilmente il vero antagonista di Joker. Nietzsche diceva, “Chi combatte contro i mostri deve guardarsi dal non diventare egli stesso un mostro. E quando guardi a lungo in un abisso, anche l’abisso ti guarda dentro.” Ecco, il Joker di Phillips non solo guarda dentro l’abisso, diventa l’abisso, mentre il resto del mondo osserva la metamorfosi diviso tra paura, inquietudine, entusiasmo. La verità è che la malattia mentale continua a fare paura non solo perché difficile da comprendere, ma soprattutto perché ancora nascosta con imbarazzo, e questo non è film, è realtà. Cosa pensate dell’amico che va in analisi? Come reagite a chi vi parla di depressione? Come giudicate chi ammette di prendere psicofarmaci? La caduta negli inferi di Arthur Fleck è mostrare al mondo il problema, svelarsi, illuminarsi (notato che una luce illumina Phoenix ogni volta che compie qualcosa fuori dagli schemi? Grande fotografia).
È un film furbo.
ABBAGLIO
La consueta lotta al potente di turno, che sia Thomas Wayne negli anni ’80 perché avido e ricco, o Trump nel 2019, perché Trump, è trita e scontata. Il messaggio è fin troppo chiaro: rischiamo di rimanere vittime della nostra stessa rabbia. Dove ci porterà tutto questo? Phillips non aggiunge nulla di nuovo al senso di frustrazione che permea la cinematografia drammatica di quest’ultimo ventennio: violenza, alienazione, squilibrio. Qualcuno disse: “Abbattete pure le statue, ma lasciateci i piedistalli”. Non importa se idolatriamo delinquenti, basta che ce lo lasciate fare.
CAPOLAVORO
Ricordiamoci che si tratta di un cinecomic, dove peraltro lo sfondo sociale quasi bidimensionale dove si muove Joker è solo il pretesto per raccontarne la sua estraneità e dove emerge come in un bassorilievo il suo spessore. La gente non mitizza Arthur Fleck perché finalmente gli riconosce un ruolo. Lo mitizza perché risponde a un istinto cieco, che non vede nulla al di là della sete di sangue. Diceva Alfred a Bruce Wayne/Batman ne Il Cavaliere Oscuro: “Certi uomini non cercano qualcosa di logico, come i soldi. Non si possono né comprare né dominare, non ci si ragiona né ci si tratta. Certi uomini vogliono solo veder bruciare il mondo.” In questo caso, quasi tutti. Chi dobbiamo temere davvero?
È molto simile a Taxi Driver.
ABBAGLIO
In molti hanno trovato raffronti con il capolavoro di Scorsese del ’76. Ambientazioni, alienazione, solitudine. Sono tanti gli elementi che possiamo riconoscere tra le due pellicole, che peraltro vede la presenza di De Niro come fisico trait d’union. È vero, entrambi vivono un’esistenza ai margini, entrambi non vengono compresi, entrambi covano dentro un dolore vivo che esplode violento sul resto del mondo. Forse non è cambiato nulla in questi quarant’anni.
CAPOLAVORO
I personaggi si somigliano, ma in Joker c’è più coscienza della propria condizione. Arthur Fleck prova in tutti i modi a vivere un’esistenza degna, incastrandosi come può nel mondo con un lavoro, le cadenzate sedute psichiatriche, un progetto ambizioso come scrivere uno spettacolo comico. Travis Bickle è altresì meno cosciente della propria deriva, stupito spettatore di una New York che lo vede già arreso. D’altronde che spazio c’era in America per i reduci del Vietnam negli ‘70? Lo stesso che c’era negli anni ’80 (ma sono davvero gli anni ’80?) a Gotham City (è davvero Gotham City?) per i malati psichici conclamati. Sopportazione. La differenza è che Joker lo sa.
Joaquin Phoenix è bravo.
ABBAGLIO
Non vincerà l’Oscar.
CAPOLAVORO
Vincerà l’Oscar.
Davvero importa? Phoenix è da sempre un outsider nel mondo dello spettacolo, al di là dei riconoscimenti questa è un’interpretazione con cui qualunque futuro Joker dovrà fare i conti. Il resto, che questo sia un capolavoro o meno, lasciamolo al tempo. Personalmente i bollini immediati ed estremi non hanno senso di esistere. Gridare all’abbaglio, gridare al capolavoro. Esistono film semplicemente buoni, comunque la si guardi. Certo è che quando un prodotto artistico divide in maniera così netta le coscienze, personalmente, lo trovo già un ottimo traguardo.