Lunga vita a Storie Maledette
A giudicare dalle tendenze social, pare che la scelta di spostare “Storie Maledette” nella prima serata del giovedì di RaiTre (contro il colosso Don Matteo!) si sia rivelata vincente. Una moltitudine di spettatori ha scoperto per la prima volta il talento di Franca Leosini, giornalista di fama decennale che, col suo programma, dal 1994 racconta l’altra faccia dei più famosi casi di cronaca nera italiana, quella di chi delinque e sta dietro le sbarre a scontare la sua pena.
Ma cosa piace esattamente di questo programma? Le ragioni sono molteplici.
Innanzitutto la curiosità di sentire la voce del criminale, che sia Fabio Savi della banda della Uno Bianca o Rudy Guede per l’omicidio di Meredith Kercher. È l’unico momento in cui, a telecamere accese e di fronte alla vasta platea televisiva, i colpevoli hanno la possibilità di raccontare la loro versione dei fatti, attraverso un mezzo che spesso li etichetta e li giudica in base a intercettazioni rubate, servizi confezionati secondo il sentimento del momento, il giustizialismo da bar e da talk show pomeridiano. È spesso un modo per riscattarsi: spesso tramite questo spazio, riescono a scardinare completamente le impressioni precostruite di centinaia di trasmissioni tivù, dove lo psichiatra, il criminologo e l’opinionista hanno passato ore a confrontarsi col presentatore di turno, commentando quanto e come pesassero certe devianze e quanto fossero sintomi di comportamenti criminosi.
È il caso della prima puntata di questa nuova stagione: chi ha visto l’intervista a Guede sarà rimasto certamente impressionato dal linguaggio forbito del ragazzo e dai modi gentili e pacati, così distanti dall’immagine di uomo nero bruto e ignorante rappresentato per molto tempo dai media nazionali.
Arriviamo così ad un altro apprezzatissimo aspetto del programma: la professionalità di Franca Leosini. Una giornalista che non accetta di fermarsi alla copertina, ma apre con coscienza quel vaso di Pandora liberando i demoni che custodisce, drammi esistenziali di vite interrotte, sconvolte, maledette. La Leosini mostra al suo pubblico cosa vuol dire saper parlare, sapere intervistare, quanto in questo mestiere significhino lo studio e la preparazione e a cosa serve soppesare ogni singola parola per descrivere una situazione, spiegare un pensiero, chiarire un dubbio. E lo fa utilizzando le meravigliose sfaccettature di un italiano ricco, un po’ desueto ad un orecchio moderno, eppure pieno di metafore, ossimori, colori, capace di alleggerire una tensione altrimenti impossibile da sostenere, visti i contenuti.
Infine, vince la totale assenza di morbosità. Immersi come siamo in un mondo dove il pathos e lo storytelling guidano le nostre vite anche per comprare uno sturalavandini, spiazza il modo in cui “Storie Maledette” ricorre al racconto senza musiche di scena, luci drammatiche e ambientazioni di impatto.
D’improvviso, scopriamo come bastino le parole a suscitare riflessioni e come basti solo la realtà a toccarci. Come l’umanità possa affiorare laddove pensiamo non esista, e come non servano titoloni shock, plastici e servizi televisivi di dubbio gusto a descrivere la tragedia di un crimine. Come dietro ogni azione, anche la più bieca, si celi prima di tutto un essere umano, che nessuno di noi ha davvero il diritto di giudicare.
È un tipo di televisione che rispetta l’uomo: la vittima e il dolore che la sua perdita provoca, ma anche il carnefice, che molto spesso non ha la faccia di un mostro, ma conserva anch’egli un’umanità che il carcere, nonostante tutto, dovrebbe preservare, custodire e rinforzare.
Lunga vita a “Storie Maledette”, lunga vita a Franca Leosini.