Masterpiece, Masterflop?
Io posso capire che si debbano sostenere gli esperimenti televisivi, prima di criticarli. Massimo Bernardini, presentatore di "TvTalk", e Beppe Severgnini sono stati molto chiari su Twitter.
Davanti a “Masterpiece” io però mi arrendo.
Perché non ho di fronte un esperimento innovativo, ma un agglomerato di programmi già visti dove la passione letteraria è solo un pretesto. È un pretesto per mostrare casi umani alle prese con la scrittura e la sua funzione catartica; è un pretesto per mostrare l’egomania e l’arroganza dei giudici secondo un sistema ormai abusatissimo (vedi i maestri Carlo Cracco, Bruno Barbieri e Joe Bastianich); è un pretesto per la Bompiani per assicurarsi le vendite di un libro che in ogni caso verrà comprato da migliaia di persone, che sia per vero entusiasmo o pura curiosità.
I giudici dei talent devono essere stronzi, sennò non ci si diverte.
Il problema di “Masterpiece” non nasce però dal suo format, del tutto simile a quello di “X-Factor” o di “Masterchef” e quindi abbondantemente collaudato per il successo. Nasce dall’incompatibilità della scrittura con il mezzo televisivo. Trovo difficile apprezzare un racconto letto, peraltro dal suo stesso autore, come fosse un temino delle elementari: male, di fretta, senza alcuna interpretazione. Lo diceva anche Calvino: “Ascoltare qualcuno che legge ad alta voce è molto diverso che leggere in silenzio. Quando leggi, puoi fermarti o sorvolare sulle frasi: il tempo sei tu che lo decidi. Quando è un altro che legge è difficile far coincidere la tua attenzione col tempo della sua lettura: la voce va o troppo svelta o troppo piano.” Trovo inoltre poco interessante guardare un gruppo di concorrenti dover scrivere un testo in pochi minuti.
In che modo posso capire se è il testo scritto bene, secondo un ritmo funzionale al contenuto, con una punteggiatura adeguata e un uso corretto della grammatica? Per quanto ci abbiano raccontato della letteratura come di un mondo romantico e istintivo, essa ha delle regole ben precise, come qualunque altro mezzo espressivo, che il pubblico deve poter apprendere.
Credo si debba rivedere l’idea secondo cui la creatività sia qualcosa di libero e incontrollabile: quella è solo ispirazione, e dura un attimo, poi però è necessario imbrigliarla e incanalarla attraverso un linguaggio preciso, sudandoci sopra con disciplina e fatica. Togliendo il superfluo, cancellando, riscrivendo. Se ciò non avviene è solo un esercizio, un diario, qualcosa che, semplicemente, non serve a niente. Ma se vogliamo scrivere un libro, e se vogliamo che questo libro venga letto da più persone possibili, il modus operandi prevede necessariamente un controllo del nostro componimento attraverso regole sintattiche, grammaticali, logiche. Prevede tempo, non un cronometro.
Diceva Pietro Giordani: “Tutto lo scrivere sta nella lingua, e nello stile; due cose diversissime, egualmente necessarie. La lingua sono i vocaboli e le frasi: segni delle idee. Lo stile è la distribuzione delle idee, la collocazione dei segni; con tale arte che producano il maggiore e migliore effetto; cioè di essere il più facilmente, il più profondamente, e il più volentieri accolte nell’animo di chi legge. I vocaboli e le frasi sono i colori di questa pittura; lo stile è il colorito.”
A ciò si aggiunge un'ulteriore perplessità. Quelli che in questi giorni hanno criticato “Masterpiece”, si sono concentrati soprattutto sulla sua struttura e sui candidati: quindi le fasi di gioco, le eliminazioni, le battute dei giudici, le biografie al limite del tragico dei concorrenti (come se tutti gli scrittori fossero maniaco depressivi, con problemi di galera, anoressici). Sono elementi importanti, non lo nego: il gioco è alla base del talent show, così come l’empatia che suscita un passato travagliato. Io però mi domando che ruolo abbia lo spettatore in tutto questo. Come possa sentirsi attivamente coinvolto in ciò che gli viene proposto, ossia il talento di questi aspiranti scrittori al di là dei loro drammi e le storie che vogliono raccontarci.
Parliamoci chiaro: gli italiani non sono un popolo di lettori. E in pochi sanno scrivere. E per scrivere non intendo certo un romanzo, ma anche una semplice mail aziendale. Guardate le vostre pagine Facebook, se pensate il contrario. Leggete Twitter. Leggete i commenti dei giornali online. Leggete gli stessi giornali online. Leggete. In un profluvio di “piuttosto che” usati come disgiuntiva, le famigerate “K” e congiuntivi scomparsi, maneggiare a dovere la lingua italiana oggi è diventata un’azione per pochi. Come potrà mai uno spettatore capire la validità di un racconto se nemmeno lui sa come usare l'italiano e se legge poco e male? Sto ovviamente generalizzando: magari tra voi, in questo momento, c’è qualcuno che ha capito davvero perché certi concorrenti a “Masterpiece” sono stati eliminati, ma soprattutto perché Lilith Di Rosa è stato scelto come finalista della prima puntata, al di là dei commenti di De Carlo, di De Cataldo e della Selasi… che comunque tra “postmoderno” e un “banale”, suscitavano altrettante perplessità.
Tratto dalla pagina Facebook del primo concorrente scelto dai giudici di Masterpiece.
Insomma, io trovo che “Masterpiece” sia solo un programma inutile, creato con la solita, fastidiosa furbizia solo per rimpolpare le casse di RaiTre e Bompiani e, ciò che è peggio, senza un minimo di riguardo nei confronti del pubblico. Il quale da un lato si affiderà ciecamente ai giudizi della giuria non avendo gli strumenti per discernere qualità e mediocrità; dall’altro rimarrà vittima delle sordide vicende dei concorrenti più che della loro scrittura; da un altro lato ancora continuerà a rimanere affascinato dal magico mondo dell’editoria, senza però comprendere davvero cosa fa di una storia un libro di successo. Perché nessuno lo sa. Non si spiegherebbero altrimenti i trionfi degli ultimi anni, dalle Cinquanta Sfumature, ai casi di e-book autopubblicati divenuti fenomeni editoriali.
Se nemmeno le case editrici più navigate riescono a intercettare i possibili best-seller, chi siamo noi per capirlo con un talent show? Ed è troppo facile etichettare i commenti negativi al programma come frutto di uno snobismo elitario e intellettualoide: la letteratura non è intoccabile (lo dimostra “Per un pugno di libri”), solo che proporla in una trasmissione puntando solo alla pancia del pubblico con stratagemmi da becero audience, la mortifica e la ridicolizza.
Non se lo merita la letteratura, non se lo merita nemmeno la televisione.