“Papà o Mamma”: meglio i cinepanettoni
Per diverse settimane Paola Cortellesi e Antonio Albanese hanno girovagato presso tutti i palinsesti televisivi per promuovere il film “Mamma o Papà” di Riccardo Milani (marito della stessa Cortellesi), impegnandosi in un battage pubblicitario degno dei cinepanettoni o di un qualunque film di Pieraccioni.
Le premesse per un buon prodotto ci sarebbero state tutte: l'ispirazione francese grazie alla commedia “Papa ou maman?” del 2015, due attori popolari e molto amati del cinema italiano, l'ambientazione veneta, una trasposizione interessante. Nel film infatti, due genitori impegnati in un divorzio si scaricano a vicenda la custodia di tre insopportabili figli, trasformandosi nel peggio della genitorialità. Come dicevamo una commedia, inevitabilmente dunque a lieto fine, ma prevedibile sin dai primi fotogrammi.
Il risultato tuttavia non è solo deprimente, squallido, mediocre e sconclusionato: arriva addirittura a far rimpiangere i bistrattissimi Boldi e De Sica, meno costruiti, più dichiaratamente volgari, ma sicuramente più onesti nella loro nazionalpopolarità.
Prima di tutto “Mamma o Papà” è scritto male: dialoghi vuoti e privi di qualunque spessore, gravi buchi nella sceneggiatura, una caratterizzazione dei personaggi inesistente, dove i protagonisti si presentano al pubblico senza alcuna sfumatura, incapaci di diventare tridimensionali, profondi, multisfaccettati.
Ambientato a Treviso, il racconto si snoda in una provincia dall’estetica ricchissima ma dalla mentalità vuota e apatica: forse a Roma vedono il Nordest come un luogo meschino, drogato di lavoro lavoro a scapito dello stesso benessere familiare. Un territorio degradante, con abitanti egoisti, seppur seduti su comode poltrone di pelle in sfavillanti case museo, enormi e lucide. La recitazione attoriale, poi, è al di sotto di qualunque standard: dai tre attori bambini, imbarazzanti nel loro pesante accento e dalle espressioni monocordi, al dialetto forzato della Cortellesi e di Albanese, che solo a tratti si ricordano di dover esser veneti.
La messa in scena poi è caratterizzata da un profluvio di situazioni al limite dell’assurdo, diluite in un soggetto che potrebbe esaurirsi in pochi minuti ma che si prolunga per quasi cento, convinto nel sembrare ironico, ma che nemmeno sotto la lettura nel non sense, riesce a strappare un sorriso.
Viene dunque da chiedersi perché un tale obbrobrio sia stato oggetto di questa pesantissima promozione televisiva, come ci trovassimo di fronte al film dell’anno, quando una cosa del genere dovrebbe mantenersi ben nascosta tra la nicchia del peggio che può purtroppo produrre il nostro cinema, che inspiegabilmente continua a finanziare l’incompetenza.