Perché Shyamalan vince su di noi
Bisogna fare attenzione, quando si parla di M. Night Shyamalan. Bisogna infatti avere coscienza del fatto che moltissime persone lo considerano un registucolo infantile, un po’ sfigato, incapace di sollevarsi dopo una serie di rovinose cadute (“E venne il giorno”, “L’ultimo dominatore dell’aria”, “After Earth”) e di replicare il successo de “Il Sesto Senso”. Per queste persone Shyamalan rimane il regista del film sul “bambino che vede la gente morta”, e niente più. Il resto è fuffa, imbroglio, mediocrità malcelata.
Dal canto mio, faccio parte di quell’altra schiera di spettatori. Quelli che vedono in lui uno dei migliori registi contemporanei in circolazione, ingiustamente sottovalutato e incompreso, capace di utilizzare il mezzo cinematografico nella maniera più significativa possibile, laddove è proprio il connubio tra significati e significanti lo strumento espressivo su cui si basa tutta la sua filmografia.
Per parlare quindi in maniera seria e completa di Shyamalan è altresì necessario conoscerlo molto bene e riconoscerne il reale valore dietro il chiacchiericcio e il pregiudizio da spettatore del sabato sera (con tutto il rispetto della categoria). Perché il cinema di Shyamalan, seppur all’apparenza semplice e un po’ bamboccione, non ha davvero nulla di innocente. Ed è probabilmente questo continuo scherzare col pubblico, abbagliarlo, prenderlo un po’ in giro con precisi stilemi di genere che l’ha condannato agli occhi di una buona fetta di spettatori.
“The Visit”, l’ultima sua fatica, non fa eccezione. Due fratelli vanno a trovare i nonni per la prima volta. In poco tempo si rendono conto che qualcosa non quadra, e lo scenario zuccheroso come un dolcetto appena sfornato si trasforma in breve tempo in una melassa indigesta, marcia, mortale.
Presentato come un horror, il film si ispira chiaramente a buona parte della letteratura cinematografica di genere per modi e per temi: l’uso del found footage, la casa isolata, la solitudine, la pazzia inspiegabile. A ciò si aggiungono i riferimenti letterari, in primis “Hansel e Gretel”, ritrovando nella figura dell’anziano la metafora delle nostre paure ancestrali: il timore dell’oblio, della demenza, della perdita di controllo (della mente e del proprio fisico), della morte. I nonni sono pazzi o semplicemente vecchi?
Ciò nonostante, non dobbiamo dimenticarci di chi dirige la storia, e Shyamalan, come detto, non è certo un regista qualunque. Un occhio attento riconoscerà una serie di citazioni e rimandi all’intera sua poetica, a partire dal perturbante, quello spaesamento che getta personaggi e spettatori in un’inquietudine senza appigli. Siamo in balìa di ciò che non conosciamo e soprattutto di ciò che fino a poco prima ritenevamo familiare e certo. Esattamente come, ai tempi di “The Village”, dubitavamo della nostra casa, in “Unbreakable” e "Lady in the water" di noi stessi, in “Signs” di Dio, in “E venne il giorno” della stessa natura, il cinema shyamalaiano è un continuo destabilizzare, provocare, dare e togliere, all’improvviso.
È poi un regista che conosce bene i suoi polli, cioè noi, e sa bene che per farci rimanere incollati alle poltrone è anche necessario rassicurarci, ogni tanto. Ecco allora l’ironia, una battuta, una scena particolarmente divertente, spesso volta al grottesco, a cui noi possiamo reagire solo in due modi: o ridendo di lui, imbarazzati, incapaci di gestire la tensione, o ridendo con lui, provando a fidarci, stare al gioco e, incalzati dal ritmo, intenti a camminare sul filo della tensione, in bilico, sulla nostra sospensione dell’incredulità.
Non è un caso che, quando ho visto “The visit” al cinema qualche giorno fa, una buona parte della sala chiacchierasse senza freni durante la visione, decidendo a nome di tutti che quel film non avesse diritto all’aura di sacralità data dal buio e dal rito cinematografico. Le maleducatissime persone commentavano, ridacchiavano, tentavano fisicamente di controllare la storia, incapaci evidentemente di padroneggiarla. Per zittirle c’è voluto un "silenzio" ben assestato da parte di una coraggiosa spettatrice, ma soprattutto la firma shyamalaiana per eccellenza, il suo twist, il colpo di scena che ha definitivamente tolto la rete di protezione a noi improvvisati equilibristi.
Pensavamo come sempre di averlo capito, e invece eccoci lì, confusi, sconvolti, occhi sgranati di fronte all’incalzare della storia, finalmente ammutoliti. Ed ecco trionfare il regista, utilizzando ancora una volta ogni mezzo a sua disposizione per affondare il colpo: la messa in scena (la cantina, come in “Signs”), la luce (una torcia, sempre come in “Signs”), i rumori e la musica (come in “The Village”), il riflesso di uno specchio (o dell'acqua di "Lady in the water"), la finta amatorialità delle inquadrature.
Il risultato è epifanico: quei dettagli con cui Shyamalan ci aveva fatto ridere, disseminati lungo la trama come i sassolini di Pollicino, ritrovano alla fine un senso compiuto, definito, pieno.
Così come in ogni sua pellicola Shyamalan ci rivela il modo in cui i suoi personaggi riescono a superare le proprie paure, costretti dagli eventi certo, ma capaci proprio per questo di reagire, così anche il pubblico infine risponde ritrovando il senso della storia, riappropriandosi del proprio (auto)controllo. E solo chi non ha capito il suo gioco si sentirà in diritto di uscire dalla sala sicuro, convinto di non essersi fatto fregare, ignorando stupidamente l’evidenza di esserci invece cascato in pieno, ancora, di nuovo.
Ecco perché “The Visit” è un film riuscito, perfetto e circolare. Ecco perché Shyamalan è tornato e vince su di noi, in barba a chi lo pensava finito.