Psicosi Coronavirus? Ecco perché è anche colpa dei giornalisti
È inconcepibile assolvere i giornalisti dall’accusa di aver diffuso il panico delle ultime settimane. Torno sull’argomento per una riflessione necessaria e doverosa.
È vero, il giornalismo deve riportare i fatti e fare informazione è anche riportare le dichiarazioni a volte sconclusionate dei politici che recentemente si sono spesso contraddetti o hanno contribuito alla confusione. Tuttavia il ruolo del giornalismo non si limita a quello di essere semplice mezzo di comunicazione, il tramite, lo strumento senza peccato.
Le responsabilità dei media esistono perché le parole scelte per raccontare una notizia hanno significato, creano mondi, paure, serenità, speranza. Non è un caso che, recentemente, tanto per non citare il solito Covid-19, il Guardian abbia deciso di modificare il linguaggio con cui parla ai suoi lettori di cambiamento climatico: d’ora in avanti si parlerà di “apocalisse climatica”, “emergenza”, “crisi”. Questo perché le parole costruiscono la realtà in cui le persone si muovono e il loro uso cambia i pensieri e l’atteggiamento di chi le legge.
Per questo motivo, se un giornale oggi parla di pandemia, untori, peste, attinge a un immaginario catastrofico e orrorifico che non può non minare l’equilibrio psicologico delle persone senza un comprovato motivo.
Nessuno chiede di chiudere gli occhi o di fermare il flusso di informazioni. Non si risponde a un comportamento errato col suo estremo opposto. Si chiede semplicemente si saper utilizzare il linguaggio non per indurre emozioni (ah, lo storytelling che spinge i lettori a pigiare click), ma per informare in modo chiaro e onesto.
Poi: domandiamoci se sono davvero necessari i titoli clickbait così tanto utilizzati da molte testate online. Il conteggio forsennato dei nuovi ammalati, i titoli in maiuscolo, l’indice puntato verso presunti contagiati (scoprite se sono positivi cliccando qui!). È un assunto base della comunicazione quello che spiega l’importanza del titolo nel coinvolgimento emotivo del lettore, che la maggior parte delle volte non prosegue nella lettura. Giusto? Sbagliato? Non è il comportamento del fruitore che deve cambiare, perché non accadrà. Il buon giornalismo non urla attraverso mezzucci. E non è possibile sperare che tutti clicchino sull’articolo o che leggano il pezzo per alzare le mani e dichiararsi innocenti. Siamo di fronte a un atteggiamento irresponsabile della carta stampata e online che, per guadagnare, usa i trucchi più impropri per attirare l’attenzione.
Chiediamoci infine cos’è più importante: che una notizia arrivi rapidamente o che sia verificata?
Ne parlai diversi anni fa, senza alcuna emergenza in atto.
Viviamo un’epoca frenetica, dove si accavallano informazioni continue e incessanti e dove, paradossalmente, non guadagna chi racconta la verità, ma chi racconta qualcosa prima degli altri. La rettifica al massimo potrà arrivare dopo, se a qualcuno interessa o è abbastanza attento. Impazienza unita a una poca sicurezza delle fonti, quindi. Siamo immersi in una pioggia di informazioni che spesso non richiediamo, ma che ci troviamo sotto gli occhi. E la colpa, ribadisco, non è né dei social, né del pubblico. L’errore è di chi ci imbocca con queste modalità, unito a un linguaggio foriero di possibili pregiudizi e timori incontrollati.
Quindi sì, la colpa di ciò che sta avvenendo è e sarà sempre anche dei giornalisti. Non vederlo è chiudere gli occhi sul dito, sulla Luna e far finta che sia il buio a comandare.