Raffaella Carrà: sulle spalle dei giganti
Il caschetto biondo e liscissimo, l’ombelico, gli abiti, le mosse, la risata. Raffaella Carrà si può scindere atomo per atomo, renderla sineddoche (quella figura retorica dove si prende una parte per il tutto), e ogni pezzo resta comunque iconico, emblema, simbolo. Tutto, insieme, è stata esplosione di libertà, trasgressione, spensieratezza, pur restando nella delicatissima impresa di rimanere entro i confini del garbo e dell’intelligenza. Almeno tre generazioni sono cresciute con le sue performance poliedriche di ballerina, conduttrice e cantante, rivendicandone l’aspetto che meglio riusciva a rappresentarle, anticipando mode e correnti, superando pregiudizi e moralismi. Raffaella Carrà era il Colosseo, la Mole Antonelliana, il Duomo di Milano: semplicemente, una presenza eterna e immutata del Paese, pilastro fondante della nostra cultura popolare.
Era, da sempre e questo si sa, icona gay per eccellenza: fu qualcosa di naturale, perché con quella genuinità concreta e senza fronzoli raccontava di libertà sessuale e spiegava l’erotismo con gioia e freschezza “Com’è bello far l’amore da Trieste in giù, l’importante è farlo sempre con chi hai voglia tu”. Sembravano canzonette, erano bandiere. Usava il corpo come massima espressione di personalità, più di qualunque altro, prima di qualunque altra: gli economisti oggi lo chiamano personal branding, a lei bastava scuotere la testa (che, forse non lo sapete, era in realtà riccia e scura). Non le servivano etichette. Con la sua pancia scoperta fece scandalizzare il Vaticano e grazie ad Alberto Sordi la sdoganò definitivamente sul piccolo schermo dopo una prima immediata censura (erano gli anni Settanta, lui spinse per ballare con lei il “Tuca Tuca”, appena rimosso dai palinsesti Rai e prontamente riammesso perché il progresso culturale si afferma anche così). Nel ‘91 Benigni non esitò a rincorrerla sul palco di Fantastico, lanciandosi con la solita irriverenza in una personalissima celebrazione della vagina, partendo proprio dalla sua. Era rivoluzione femminista, vestita di pailletes e tutine a zampa attillatissime.
C’è stato il tempo della provocazione, quello rassicurante delle telefonate da casa per indovinare i fagioli nel vaso e aggiudicarsi il montepremi prima del tiggì, infine è arrivato quello delle carrambate, precursori della televisione emozionale imitatissima e mai davvero riuscita agli altri, semplicemente perché a nessuno è mai riuscito di sembrare così sinceri e genuini, con quella risata di pancia e la testa all’indietro, come quando non riesci davvero a trattenerti. Contemporaneamente, ci insegnava cantando a gestire l’amore (“E se ti lascia lo sai che si fa? Trovi un altro più bello, che problemi non ha”), a fregarcene degli altri e a ballare “pazza pazza pazza su una terrazza”, esportando anche all’estero la sua contagiosa allegria (oggi la piangono anche in Spagna e Sudamerica). Fu la prima di tutte: la gigantessa dal corpo minuto da cui oggi, specialmente le donne che fanno televisione, possono partire per guardare lontano.