Supportate l’arte e smettetela di criticare la Ferragni
Chiara Ferragni è come un liquido: assume la forma del contenitore che la ospita. Deve pubblicizzare delle scarpe? Nessun problema. Una mozzarella? Un gioco da ragazzi. Un museo? Che problema c’è?
Eppure qualcuno pensa che quest’ultimo lo sia, un problema. Pensa che se i Musei Vaticani o gli Uffizi sfruttano la presenza dell’influencer (già lì per un progetto di moda) ci sia qualcosa di distorto, il frutto malato di un consumismo che non ha nulla a che vedere con la cultura e con l’arte, che non dovrebbero per nessun motivo immischiarsi in una ricerca spasmodica di like come un qualunque post di Instagram.
Ed è qui che risiede un primo errore di partenza: innanzitutto quello che vede l’arte e la cultura come entità astratte immutabili nel tempo, intoccabili e non commiste, quando sono altresì elementi contaminabili e contaminanti e che anzi, sopravvivono solo grazie alle relazioni col resto del mondo. L’arte è elemento vivo, che prende spunto dal mondo e al mondo restituisce qualcosa. Ma non va dimenticato inoltre, e qui c’è un altro grave problema di interpretazione, che la cultura deve essere sostenuta economicamente e che le strategie di marketing adottate dai musei spesso corrispondono alle stesse strategie aziendali dei grandi brand. Né più, né meno. Se la Ferragni con un suo post riesce a raggiungere anche solo una minima parte dei suoi (ad oggi) più di venti milioni di follower, allora sarà già una gran vittoria per le realtà artistico turistiche del nostro Paese, così gravemente afflitte dalla crisi pandemica in corso.
Ciò non significa che d’ora in poi bisognerà appellarsi agli influencer per pubblicizzare le proprie opere come fossero prodotti qualunque: è una delle tante strade che sarà necessario adottare, scegliendo accuratamente il personaggio e il target a cui riferirsi. La Ferragni in questo caso è stata scelta per il bacino enorme di seguaci, non perché capace di veicolare messaggi profondi a un determinato pubblico (è, ribadisco, liquida, adattabile e plasmabile per chi decide di lavoraci): il suo pubblico è talmente vasto e internazionale, che ci sarà qualcuno che avrà voglia, dopo tutto questo, di visitare gli Uffizi.
Sono inutili e antiquate le recriminazioni relative alla cultura alta e alla cultura bassa: sono poche le persone che entrano in un museo conoscendo accuratamente le opere esposte. Il punto qual è? Meglio che un museo lo visitino esperti del settore o che sia il grande pubblico, comunemente non specializzato, a pagare il biglietto per una mostra su Raffaello? Perché, parliamoci chiaro, sono i secondi a garantire i maggiori introiti. Sarebbe il caso quindi di staccarsi dalle logiche elitarie e chiaramente snob per cui esistono luoghi intoccabili dalla comune plebe ignorante: è il motivo per cui in Italia è difficilissimo lavorare con la cultura.
E qui si tocca infine un altro importante aspetto della faccenda, già commentato ampiamente da Selvaggia Lucarelli: la scarsissima capacità italiana di gestire il suo immenso patrimonio culturale. C’è uno scollamento tra quello che potremmo offrire e quello che riusciamo ad offrire. Siti obsoleti, indicazioni lacunose e imprecise, grafiche antidiluviane: il settore artistico turistico del nostro Paese soffre da tempo di una crisi comunicativa, che spesso allontana il turista piuttosto che attrarlo. Tant’è che spesso esistono luoghi meravigliosi in cui incappiamo quasi stupendoci, sorpresi di non averli visti pubblicizzati da nessuno. Ed è questo, probabilmente, il vero nodo della questione. Perché se ci fosse una reale valorizzazione di chi lavora con la cultura e della cultura stessa, l’Italia saprebbe guardare avanti con un’energia e uno slancio che nessun altra nazione al mondo potrebbe superare. Invece le professioni culturali rimangono schiacciate da un sistema lavorativo che le sminuisce e non offre sbocchi economici quando va bene, le demolisce in favore di altri settori quando va male. Persino il social media manager degli Uffizi, pur sfruttando la Ferragni, ha confezionato un post infelicissimo per raccontarlo, associandola alla Venere di Botticelli come una “sorta di divinità contemporanea nell’era social” in un tiratissimo e arzigogolato post che ha poi scatenato ancora più polemiche. Nemmeno così, si dovrebbe pubblicizzare l’arte. Perché il post trasuda pelosa accondiscendenza e un sotterraneo e fastidioso retrogusto retorico su presunti canoni estetici e sociologici, che spostano l’attenzione dall’opera al testimonial: un errore madornale, perché il testimonial semmai è il tramite, non il fine.
Sono tempi difficili, questo è certo. Tuttavia, come tutte le crisi, dovrebbero essere sfruttati per aspirare a uscire da una logica stagnante ed evidentemente fallimentare per reinventarsi e vivere davvero il mondo contemporaneo, che comprende multimedialità, innovazione, ma soprattutto un piano per far scoprire non solo il bello, ma il bello di sapere. Quello che c’è anche dentro i nostri musei.