The Bling Ring: il vuoto col film intorno
Ho trovato “Bling Ring” un film inutile e fastidioso.
Inutile perché non rilancia, non rischia, si ferma alla superficie di un fatto di cronaca che poteva presentare risvolti interessanti, seppur abusati. Cosa ci dice in fondo la vicenda di quei ragazzi che per divertimento, noia, invidia e vanità rubavano oggetti di lusso dalle case dei vip americani? Niente che non possiamo già immaginare osservando ogni giorno una certa televisione, la piazza, la nostra pagina Facebook. Se però ci fai un film, uno si aspetta che dalla constatazione si passi a un discorso più articolato, con qualche subordinata, un sottotesto, eventualmente (ma non necessariamente) una morale. “Bling Ring” manca di tutto questo e di molto altro. Sofia Coppola non è nuova ai film-copertina, così definiti perché patinati e curati in ogni dettaglio estetico, ma privi di tridimensionalità. Non mi dovevo stupire che la sua ultima opera fosse un’accozzaglia di inquadrature totalmente insignificanti ma dalla fotografia perfetta. Tuttavia, da spettatrice, spero sempre nell’evoluzione di una poetica. Quindi ho voluto darle l’ennesima possibilità, forse attratta dalla colonna sonora. Purtroppo ciò che ho trovato è solo un grave immobilismo creativo.
“Bling Ring” è poi fastidioso perché si trascina dietro un marketing altrettanto superficiale e ipocrita. Il film è pubblicizzato da Sephora, i marchi di lusso inquadrati e citati dai personaggi alimentano il loro valore di status symbol, in una irritante autoreferenzialità. Paradossalmente la pellicola si comprende meglio al di fuori della sua visione: basta osservare le strategie di comunicazione che l’accompagnano, gli articoli, le interviste, i servizi, le pubblicità, le recensioni marchettare nei giornali di moda e gli hashtag sui social network. Un meccanismo che induce all’emulazione, perché le attrici sono stilose, la lingua di Emma Watson eccitante, il reato grave ma fico.
Non siamo semplici spettatori, siamo protagonisti
Non siamo semplici spettatori, siamo protagonisti, nonostante la convinzione che ci fa uscire dal cinema con serenità sia quella di non essere come loro, di appartenere a una diversa generazione, di avere valori differenti. Ne siamo sicuri? Non ruberemmo oggetti di lusso da ricche ville losangeline, ma certamente anche noi compriamo oggetti per aspirare a una determinata posizione, definirci qualcuno, sentirci parte di un tipo di società, come ogni buon manuale di psicologia del marketing ci insegna da sempre.
Ad aggravare il quadro, appare evidente che alla Coppola non interessi troppo indagare il fenomeno. Credo semmai che abbia imbastito un film attorno al suo personalissimo desiderio di tuffarsi nel guardaroba della Hilton (in fondo parliamo di una donna che ha pure messo il suo nome a una borsa di Vuitton).
Se ancora non avete avuto modo di vederlo quindi, mi raccomando: non fatelo. Non cadete anche voi nella trappola, risparmiate quei sette euro. E se al cinema ci volete andare, c’è l’ultimo Cuaròn per esempio, e questa settimana ripropongono “Animal House”, se davvero vi interessa approfondire la vacuità che ruota attorno al mondo giovanile, ma con più sarcasmo, più ritmo, più polemica e soprattutto con più di trent’anni di anticipo.