8 marzo 2018: ecco perché dico “no” allo sciopero globale delle donne
Addì, giovedì 8 marzo 2018, in concomitanza con la “Giornata internazionale della donna”, il percorso Non una di meno ha indetto uno sciopero globale delle donne, ecco la descrizione di questo cosiddetto “evento” (o almeno così è classificato sulla relativa pagina Facebook): “Il prossimo 8 marzo la marea femminista tornerà nelle strade di tutto il mondo con lo sciopero globale delle donne. L’8 marzo incrociamo le braccia interrompendo ogni attività produttiva e riproduttiva: la violenza maschile contro le donne si combatte con una trasformazione radicale della società. Scendiamo in strada ancora una volta in tutte le città con cortei, speaker’s corner, presidi, assemblee, manifestazioni creative”.
Ebbene, la parola “evento”, in fisica, indica ogni fenomeno che avvenga in uno spazio così ristretto e in un tempo così breve da poterlo considerare caratterizzato da un punto e da un istante, il che descrive perfettamente la situazione della lotta contro la violenza sulle donne in Italia e nel mondo intero.
Tutto ciò si è tradotto in uno sciopero generale, dai bus agli aerei, passando per i treni (nello specifico Trenitalia ha precisato che lo sciopero è previsto dalle ore 00.00 alle ore 21.00 di giovedì 8 marzo e che le Frecce circoleranno regolarmente, mentre per i treni regionali saranno garantiti i servizi essenziali previsti in caso di sciopero nei giorni feriali dalle 6.00 alle 9.00 e dalle 18.00 alle 21.00).
Anche i dipendenti di Poste Italiane aderenti ai Cobas si asterranno dalle prestazioni di lavoro straordinarie e aggiuntive.
Ora, se siamo noi donne a dover scioperare, che diamine c’entra questo effetto domino sindacale, che coinvolgendo, presumo, anche lavoratori uomini, non fa altro che inasprire e peggiorare la condizione del gentil sesso, proprio in questo simbolico giorno? A che pro farlo diventare un Primo Maggio bis? Cosa gliene può fregare, alla casalinga appiedata che magari deve portare i figli a scuola utilizzando l’autobus, di tutta questa prosopopea sciopereccia? E ancora, questo trambusto gioverà mai alla lavoratrice pendolare che approda al luogo di lavoro in treno? Io mi domando, da chi è composta la “marea femminista” (fra l’altro il termine “marea” non mi piace affatto, perché indica qualcosa di periodico e volubile, un elemento che tende a tornarsene da dov’è venuto il prima possibile) così ottimisticamente definita nel proclama sopracitato? Quale donna, nel concreto, aderirà a questo sciopero, scendendo in piazza?
Non la cassiera del supermercato sotto casa, che puntualmente occuperà il suo posto di lavoro; non l’operaia della catena di montaggio, che si farà il consueto mazzo anche oggi; non l’insegnante precaria, che vive una doppia condizione di svantaggio: l’essere donna e l’essere lavoratrice senza alcuna garanzia.
Mi prefiguro le organizzatrici/gli organizzatori delle manifestazioni e degli eventi associati, in prima linea, seguiti a ruota da studenti e studentesse che nella maggior parte dei casi, bontà loro, non devono pagare le bollette a fine mese.
Exploit di questo tipo, circoscritti nel tempo e nello spazio, hanno un carattere squisitamente dimostrativo: sono permeati di volontà di illustrare la fondatezza logica del pensiero che li sostiene ma sconfinano nell’assoluta illogicità.
In soldoni: la donna subisce soprusi di tutti i tipi 364 giorni all’anno, che fare? Ebbene, angariamola ulteriormente e pragmaticamente, proprio l’8 marzo, con l’ennesimo sciopero fine a se stesso.
Il confine tra rivoluzione e sofisma spesso è labile.
E credo che mettere i bastoni tra le ruote alle donne nascondendosi dietro il baluardo della salvaguardia dei diritti delle medesime, rientri a pieno titolo nella categoria della speciosità, ovvero di ciò che è pretestuoso e solo in apparenza buono.