Il professore umiliato a Lucca e le superflue chiose sulla responsabilità di scuola e famiglia
In un istituto tecnico commerciale di Lucca si è consumata l’ennesima violenza, stavolta ai danni di un professore di italiano e storia. Il malcapitato, un insegnante di 64 anni, è stato preso di mira da una cricca di studenti minorenni (ci sono già 6 indagati dalla procura minorile per violenza privata e ingiuria), la stessa che stando ad altri video ritrovati nei cellulari dei protagonisti di questo misfatto lo perseguitava da tempo.
Nella fattispecie, un soggetto minorenne gli intimava di mettergli 6 fra minacce e insulti e un complice filmava (poiché al giorno d’oggi non solo va di moda fare i prepotenti, ma anche riprendere il tutto, ça va sans dire), con un sottofondo di sghignazzate da parte della classe.
Siccome è prassi consolidata improvvisarsi psicologi, ho assistito al solito proliferare di articoli e post sulle responsabilità di scuola e famiglia, in cui un caso particolare diventa un discorso generale, a mio avviso riassumibile col modo di dire “piove, governo ladro!”.
C’è chi mette sotto accusa il sistema educativo in toto, chi colloca sotto la lente d’ingrandimento i valori dei ragazzi di oggi, chi mette in croce la famiglia d’origine (molti, in nome di un giustizialismo da tastiera, invocano la galera per il padre e la madre dei soggetti coinvolti) e chi riassume queste tre visioni in un’unica incarnazione.
Io invece non percepisco sempre e comunque il singolo come sottoprodotto di un macrorganismo, credo ancora nel concetto di “individuo”: in parole povere, la colpa è tutta dei vessatori.
Se in classe uno studente che indossa un casco da motociclista intima al professore di fare quel che dice lui perché in caso contrario gli elargirà una testata (episodio accaduto sempre al professore di Lucca a opera della medesima gang), non vedo una società malata, ma UN colpevole. Non invoco una punizione per i suoi genitori, la invoco per lui.
Per alcuni si tratta probabilmente di un concetto incredibile, ma riducendo la questione ai minimi termini, si potrebbe tranquillamente affermare che esistono figli buoni di genitori cattivi e figli cattivi di genitori buoni.
D’altro canto, se volessi divertirmi a generalizzare ancora di più, aggiungerei che, secondo la neuroscienza, le aree cerebrali frontali sono le ultime a completare la loro maturazione, tanto che durante l’adolescenza il cervello continua il suo sviluppo, incrementando progressivamente le connessioni con le altre aree cerebrali e questo processo continua fino ai 30 anni.
Secondo questo ragionamento un individuo non è pienamente capace di intendere e di volere fino a 31 anni: che fare, allora? Vogliamo continuare a parlare di “bullismo” (termine che rifiuto perché minimizza il problema) anche a 30 anni suonati perché fino a quell’età il cervello non si è sviluppato del tutto?
Restando in tema di deresponsabilizzazione, gioverà ricordare che perfino gli spartani, famosi per la loro rigida educazione militare, non si fidavano a mandare in combattimento chi non avesse ancora compiuto 20 anni; in tempi più recenti, in Italia, non si diventava maggiorenni che a 21 anni (fino al 1975, per la precisione). Nonostante ciò, a dispetto del lobo temporale non del tutto sviluppato, sovente a quell’età avevi già combattuto numerose guerre e possedevi un numero non precisato di figli.
È utile parlare di lobi frontali non del tutto sviluppati e della vita del giovane uomo spartano o italiano del XIX e XX secolo? La risposta è no. Altrettanto inutile è andare in cerca della colpa di scuola e famiglia, perché in questo modo il protagonista di una vicenda di violenza gratuita non si assumerà le proprie responsabilità.
Pare che il ragazzo ripreso mentre tiranneggiava il professore si sia già scusato col malcapitato ma che il preside dell’Istituto non ritenga sufficiente tale atto (Preside for President, aggiungo io), tanto da parlare di bocciatura per i colpevoli (mi sembra il minimo) e non solo. Non so voi, ma io mi scuso quando pesto involontariamente il piede a qualcuno, devo ancora sentire un prevaricatore seriale affermare “ho sbagliato, ho bisogno di aiuto e sono pronto a scontare la giusta pena, anche in galera”.
Dal canto suo la vittima, cioè il professore, minimizza e asserisce che la vicenda ha suscitato troppo clamore e che il suo unico errore sia stato quello di non avvisare subito il preside. Io non condivido questo modo di affrontare la situazione: purtroppo ho visionato i filmati messi in circolazione dalla cricca e condivisi dai maggiori quotidiani e devo dire che mettono davvero i brividi (vedere per credere).
Cosa fare per arginare questo fenomeno dilagante? Imporre l’attenti all’ingresso in aula dei professori, per reintrodurre una parvenza di rispetto per l’autorità scolastica? Proibire i cellulari in classe? Comminare la bocciatura senza possibilità di appello (spesso basta fare ricorso e addio ripetenza dell’anno scolastico)? Nominare dei sorveglianti fra gli stessi alunni, che vigilino a scuola, come già accade per esempio in una Media Inferiore di Mantova?
E se gli studenti si alzassero in piedi covando rancore? E se gli alunni ne avessero due di cellulari, o semplicemente trasgredissero il divieto? Se la bocciatura non costituisse un problema per i ragazzi violenti? Se i sorveglianti non fossero all’altezza del compito affidatogli?
La questione è complessa, intanto che si cominci ad attribuire la giusta punizione ai violenti, affinché “io speriamo che me la cavo” non sia più il mantra in dotazione ai docenti insieme alla cattedra. Perché ciò sia possibile è necessario denunciare gli abusi degli studenti fuori controllo. Sempre.