Il pianeta terra è triste e non c’è niente che io possa fare
“Ground Control to Major Tom”.
C’è qualcosa che può e che deve andare oltre l’arte fine a se stessa.
Un film, un libro, un quadro, una canzone, anche se non sono il parto della tua immaginazione, possono manifestarsi dall’oggi al domani nella tua esistenza con una forza così dirompente che a un tratto non è più possibile percepire la distanza che intercorre fra te e il cineasta, lo scrittore, il pittore o il cantautore.
Ed è in quel preciso istante che realizzi di essere talmente solo da non esserlo più. O viceversa.
A me è capitato sempre con ciò che bene o male ha a che fare con gli astri.
L’effetto più dirompente che abbia mai avuto una pellicola sulla mia esistenza è da attribuire a 2001: A Space Odyssey: mi ha permesso di cogliere un Universo di solitudine prosaicamente e dolorosamente concreto. Come quando sono in cima a una montagna o sulla spiaggia e osservo ciò che ho dinnanzi, le nuvole, il mare o le stelle: se da un lato mi sento parte del Cosmo e per così dire "infinita", dall’altro ho la terribile consapevolezza di non comprendere affatto ciò che vedo ed è in quel momento che mi scontro con la finitezza dell’essere. L'alienazione mi investe, cruda.
Non credo all’esistenza degli extraterresti per il semplice fatto che a mio parere i veri alieni siamo noi. Ma non metaforicamente parlando, si badi bene: abitiamo sì o no un pianeta sperduto nel sistema solare? E quest’ultimo è oppure no uno scherzo giocato dal destino alla Via Lattea? Abbiamo cominciato o no a esplorare gli altri pianeti? Siamo degli alieni fatti e finiti, diamine, a parte la faccenda delle antenne, dei giganteschi occhi liquidi da mosca e tutto il resto.
E non potrebbe essere altrimenti: l’etimologia della parola destino, che non a caso ho utilizzato poco sopra, è greca (ístemi) prima che latina e definisce quello che sta fermo, l’immobile, perciò altro non possiamo fare che correre a perdifiato, noi poveracci, proprio per cercare di scuoterlo un po’, questo misterioso monolito.
E così ti rendi conto del fatto che HAL 9000 e David Bowman sono due facce della stessa medaglia e che questa medaglia altro non è che lo Star-Child, per dirla alla Stanley Kubrick.
“Eppure questa riflessione l’ho già fatta in passato! Ma in quale circostanza ero arrivata a questa conclusione?" Mi chiedo a un tratto… “Ecco come, attraverso Il Piccolo Principe, Starman per antonomasia!". Questa lettura, attualmente banalizzata e inflazionata come pochi altri libri al mondo, in tempi non sospetti mi ha sbattuto in faccia che i concetti di isolamento e di catarsi non erano una mia esclusiva.
“Maledizione, questa idea mi frullava in testa già da prima. Come l’ho maturata? Ci sono, finalmente! Tutto è partito da Joan Miró!”. E mi ritrovo a pensare a quando contemplavo i suoi quadri come se fossero lo Spazio e sognavo di essere un’astronauta smarrita fra linee rette, chiuse o aperte, una sorta di declinazione al femminile di Ulisse in tuta EMU impigliata in curve, asterischi e colori che si rifocilla, a dir poco anacronisticamente, di brodo primordiale.
“Caspita, ma io questa parentesi antigravitazionale l’avevo già aperta in passato. Perché mai ho questo déjà vu ?… Eureka! La risposta è Space Oddity di David Bowie!”.
In determinate circostanze è dannatamente confortante immaginare di essere il Maggiore Tom che fluttua nello Spazio e osserva con distacco la propria miseria e quella della Terra.
E allora chi se ne importa se questo porco Mondo sta andando alla malora perché le stelle hanno un aspetto molto diverso, oggi. Da brava aliena ho compiuto questo viaggio a ritroso, come una nascita filosofica e intergalattica al contrario, solo per cercare, in una costellazione e con il naso all’insù, Ziggy Stardust. E per chiedergli di salutarmi Lemmy, fra una Galassia e l’altra. Can you hear me, Major Jones?