Articolo Quinto: la Repubblica è una e indivisibile
L’articolo 5 della Costituzione italiana sancisce, almeno in linea di principio, la garanzia di un’ampia libertà conferita alle diverse realtà territoriali nel perseguimento e nella gestione di interessi locali: “La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento”.
In parole povere le decisioni non dovrebbero piovere dell’alto come diktat, prevaricando le autonomie locali. Che meraviglia, la Costituzione italiana!
Peccato che il patriottismo qui da noi sia un sentimento in via d’estinzione.
La coesione è un elemento presente solo “cartograficamente” parlando e il “dualismo” inteso come differenziale di sviluppo fra il Nord e il Sud del Paese ci caratterizza ancora oggi: lo "stivale" non tollera il "cuoio" che lo compone, mentre dal canto loro frazioni, comuni e città della medesima Regione si detestano a tal punto che i rispettivi abitanti si apostrofano con gli epiteti più sordidi che certamente farebbero rivoltare nella tomba qualunque martire idealista dell’unificazione nazionale italiana.
Come se non bastasse il perdurare di questo risentimento congenito fra connazionali, velenoso rigurgito di stati, granducati e regni unificati sulla carta ma drammaticamente eterogenei a partire dalla lingua, occorre sottolineare che la storia italiana, dal Risorgimento in poi, la conoscono in pochi: Giuseppe Mazzini, Giuseppe Garibaldi, Cesare Balbo, Carlo Cattaneo, Vincenzo Gioberti per la stragrande maggioranza della popolazione sono solo nomi privi di significato seminascosti dalle dita polverose della storia.
Gli altri Paesi, badate bene, ci tengono parecchio ai propri eroi locali, al contrario di noi. Probabilmente studiano addirittura la storia nazionale; sicuramente sono dotati di amor proprio.
Ed è forse per questo che la nostra Nazione da secoli funge da ostello per chiunque senta l’esigenza di transitarvi, mentre gli altri Paesi prendono le distanze turandosi il naso.
Allorché un popolo da secoli vessato come il nostro, ritiene che la misura sia colma (e prima di arrivare a questa conclusione ce ne vuole perché siamo abituati a sopportare più delle bestie da soma che sgobbino stracariche di vettovaglie su una mulattiera innevata) osando alzare la testa in segno di protesta, oltrepassando il segno tanto da rendersi colpevole, in certi casi, perfino di un reato (basti ricordare i roghi di televisori e mobilia accesi a Quinto di Treviso) a causa dell’esasperazione, non c’è passato comune che tenga e non ci si limita a condannare il gesto in sé come si dovrebbe fare, ma si innescano vere e proprie lotte tribali: tribù del sud contro tribù del nord.
Si invocano punizioni divine, si scagliano maledizioni, si lanciano anatemi.
Agli italiani, soprattutto se Veneti, è proibito anche solo sussurrare che non ne possono più: paradossalmente i compatrioti stessi glielo vietano, magari utilizzando appellativi indecorosi, tra i quali, spicca il seguente orrendo florilegio: “Veneto fascista e razzista, ubriacone e ignorante (sic), crepa, noialtri preferiamo un qualsiasi clandestino a te” (quando leggo simili oscenità mi tornano alla memoria le sacrosante parole di Umberto Eco sulle legioni di imbecilli che infestano i social).
Come se non bastasse i giornali nostrani, dalla demagogia facile, si prodigano nel produrre falsi idoli verniciati di pietà o per meglio dire si affannano a lastricare le vie del pietismo e del buonismo di buone (o cattive?) intenzioni.
Queste due correnti, vere piaghe del XXI secolo, sono merci preziose perché politicamente corrette e perciò redditizie.
E i giornalisti, facendo comunella coi leoni da tastiera, ne approfittano per farne soprattutto una questione politica, inveendo contro Salvini, Zaia, Prodi, Grillo, Berlusconi, Alfano, il PD, il PdL, i democristiani, il Movimento 5 Stelle, la Lega, Renzi, Cavour, i carbonari, Romolo, Remo, Scipione l’Emiliano e chi più ne ha più ne metta.
Hanno idealizzato i clandestini a tal punto che a sentir loro sarebbero tutte figure da libro Cuore degne di soppiantare senza colpo ferire i personaggi descritti da De Amicis, non ragionando minimamente sul fatto che anche loro sono esseri umani che possono essere più o meno dotati di pregi e difetti, più o meno in buona o cattiva fede.
Parlano di ospitalità incondizionata senza pensare al post "onda emotiva": che fine fanno quelli che spariscono improvvisamente dai centri d'accoglienza, persone prive di documenti, che non hanno ricevuto assistenza medica, che non spiccicano una parola di italiano?
Non ci si interroga sulle finalità di questo vero e proprio business di carne umana e sul perché le altre Nazioni se ne lavino le mani.
Tutti si riempiono la bocca di discorsi farneticanti, senza risparmiare stoccate all’emigrazione transoceanica italiana del XIX e XX secolo (puntualmente i nostri emigrati vengono confusi con i profughi e i clandestini, mentre in quel caso fu l’America bisognosa di manodopera ad aprire le porte all’immigrazione), tuttavia non sarà superfluo ricordare che i flussi migratori italiani, il cui tessuto era costituito in buona parte da contadini, avevano come oggetto Paesi ricchi di spazi e risorse ma poveri di braccia, come gli Stati Uniti, il Brasile e l’Argentina e che i controlli medici e amministrativi ai quali si sottoponevano i migranti erano scrupolosissimi, basti pensare a Ellis Island, isola della baia di New York ribattezzata “Isola delle lacrime” proprio a causa della durezza dei metodi selettivi che vi venivano applicati, che a partire dal 1894 (il governo federale assunse il controllo del flusso migratorio a partire da quell’anno) a causa degli sbarchi massicci di immigrati provenienti soprattutto dall’Europa meridionale e orientale fungeva da stazione di smistamento.
Non si può certo pretendere che mentre l’Europa volta la testa dall’altra parte il peso dell’esodo ricada tutto sulle spalle della penisola italiana (basti pensare che in Veneto, abitato da poco meno di cinque milioni di abitanti, sarebbero arrivati 517.00 profughi).
Personalmente ritengo assurdo anche solo ipotizzare di far fronte a questa ondata senza le adeguate strutture, senza un’organizzazione nazionale e internazionale capillare ed efficiente, che sia fruttuosa e assicuri un futuro ai disperati e agli apolidi che fuggono dalla guerra e dalla miseria.
Per il momento non è così e mentre i profughi vengono “rimbalzati” da un luogo all’altro, trasferiti nelle ex caserme (per esempio dopo la protesta di Quinto i 101 profughi “pietre dello scandalo” ai quali la Prefettura aveva destinato alcuni appartamenti sfitti stipulando un contratto con la società immobiliare proprietaria del condominio in oggetto, sono stati trasferiti nell’ex caserma "Serena" fra il comune di Treviso e il comune di Casier, anche se a febbraio 2015 sui giornali si leggeva nero su bianco che mai e poi mai la “porzione” di caserma appartenente a Casier si sarebbe trasformata in un centro di prima accoglienza per rifugiati) o chissà dove, mi trovo a riflettere sul fatto che per l’ennesima volta l’obiettivo principale non è trovare una soluzione dignitosa per i rifugiati bensì accapigliarsi ferocemente tra "italioti", senza alcun costrutto.