Questa stanza non ha più pareti ma alberi, alberi infiniti. E un ciclamino.
Il mio compagno giorni or sono mi ha portato in dono un ciclamino. Quell’aria rassegnata e vagamente “pensierosa” che contraddistingue la maggior parte delle piante da vaso che si trovano in città me l’ha fatto andare subito a genio. L’ho subito dotato di un sottovaso per potergli offrire un “bicchiere” d’acqua, parola che si traduce in due dita scarse della medesima. Dopo averlo lasciato solo soletto per un paio di minuti al massimo, posando nuovamente lo sguardo su di lui per valutare se trovargli una posizione più favorevole in termini di luce, sorpresa! Aveva già bevuto tutto. Ho provato una strana sensazione, come se davanti a me ci fosse una bestiolina incredibilmente viva e reattiva, che mi scrutava tutta soddisfatta dopo aver lappato i suoi sali minerali.
Ogni giorno, clima permettendo, lo colloco all’aperto e mi assicuro che al calar del sole torni dentro al calduccio, mi guardo bene dall’esagerare con l’acqua perché ho letto che le creature di siffatta specie non devono avere il terriccio umido. E quell’infingardo, come se non mi stesse già abbastanza simpatico, cos’ha fatto? Ha sfoggiato un corollario di boccioli, molti dei quali si stanno schiudendo e hanno la testolina all’ingiù sugli esili steli, donandogli un aspetto malinconico e vivace allo stesso tempo: paradossale, ma vero. Mi sento un po’ come il Piccolo Principe con la sua rosa, solo che il mio ciclamino, grazie al cielo, non vuole stare sotto una campana di vetro, non minaccia il prossimo con "artigli" inesistenti e non è ipocondriaco.
L’unico suo vezzo, inconsapevole, è un meraviglioso insieme di petali scarlatti: la "tavolozza" della Natura non contiene un solo colore che possieda una bellezza fine a se stessa, puramente estetica. Un colore sgargiante potrà concorrere ad attirare gli insetti per l’impollinazione; in altri casi ad allontanare quelli molesti. Peccato che la pigmentazione non sia un valido deterrente anche contro gli esseri umani.
Ho letto che a Treviso altri 17 alberi dovrebbero essere tagliati in varie zone, per esempio in Viale Cesare Battisti e in Viale Jacopo Tasso, da aggiungere ai 15 abbattuti nemmeno due settimane fa un po’ in ogni dove (e alle 2000 piante che a quanto pare sono state tagliate negli ultimi dieci anni, 700 delle quali non sono state sostituite). Al momento non vi è denaro per rimpiazzare alcun tipo di albero. E mentre mi ritrovo a pensare a quale stratosferica cifra occorra per piantarne uno, con la stessa espressione cogitabonda di Snoopy quando si sdraia sul tetto della sua cuccia a meditare, guardo di sottecchi il mio ciclamino per non incrociare il suo “sguardo”: quasi mi viene spontaneo scusarmi con lui, in quanto degno rappresentante del regno vegetale.
Io capisco che alcuni alberi si debbano abbattere perché sono malati; che altri con le loro radici o mediante rovinose cadute di rami costituiscano un pericolo per l’ignaro automobilista-ciclista-pedone. Ma non mi è sufficiente per farmene una ragione e non posso evitare di piombare in uno dei miei periodici stati di catatonica mestizia radical-ambientalista alla “ragazzo della Via Gluck”.
Riuscireste a immaginare un mondo privo di alberi, che esistono da almeno tre ere geologiche prima dell’uomo e vivendo benissimo anche senza di lui pur tuttavia gli sono di estrema utilità? Tanto per cominciare producono ossigeno, poiché nei processi fotosintetici tale gas viene eliminato in quanto prodotto di scarto, mentre assorbono l’anidride carbonica (che naturalmente ai giorni nostri è in eccesso rispetto alla quantità che può essere elaborata dagli alberi, anche a causa della deforestazione selvaggia), indispensabile alle piante per assemblare nuove molecole di glucosio. E vogliamo parlare del fatto che sono i nostri principali alleati contro le alluvioni, dato che l'umificazione incrementa notevolmente la capacità del suolo di trattenere acqua?
Quelli che con una forza lenta ma inesorabile spaccano perfino il cemento, mi ricordano gli Ent, i dormienti, oserei dire totemici giganti “verdi” de “Le due Torri”, libro della fantastica (in tutti i sensi) trilogia di Tolkien, che a mali estremi si destano e marciano contro chi ne vuole fare strage. Avete mai provato ad appoggiare una mano sulla corteccia di un albero, pensando che pare impossibile che alcuni di essi siano centenari o millenari? Si percepiscono al contempo solidità e fragilità, sulle quali rifletto anche quando scorgo uno di questi titani silenti produrre della resina per “rimarginare” le proprie ferite, o per proteggersi dai parassiti.
Se potessero parlare, quali memorie potrebbero tramandarci, quali storie? Più favolose, incredibili di quelle di Perrault, dei fratelli Grimm e di Mauro Corona messe insieme. Quando vedo un albero che magari ha vissuto le due guerre, lo immagino nonno, canuto e inascoltato, se ne ha vissuta solo una, di guerra, lo penso poeta come Zanzotto, lo vedo con un cappello calato sulla fronte, la sciarpa intorno al collo e lo sguardo rivolto all’Infinito. Se durante un’escursione in montagna noto un ciocco, una radice più contorta, nodosa di un’altra, mi sembra di scorgervi un volto tremendamente espressivo e non fatico a immaginare quali creature possa aver visto il viandante solitario che per farsi compagnia e vincere la solitudine diede origine nella sua mente a elfi, gnomi, troll e a tutte le creature che popolano i boschi nella mitologia nordica ma non solo. Ora però ripongo nello scaffale della memoria il "libro" delle mie fantasticherie boschive e ascolto la “canzone” della realtà. Perché la musica è questa: “Là dove c’era l’erba, ora c’è una città”. E “Se andiamo avanti così, chissà, come si farà”.