Tremate, tremate, le streghe son tornate!
In questo clima di mutande pazze potrà sembrare a dir poco démodé riesumare uno slogan che ha infiammato i reggiseni di mezzo mondo appena una manciata di decenni fa (anche se sembrano trascorsi eoni) e usarlo a mo’ di presentazione.
Ma il pericolo è il mio mestiere e dei dettami della moda francamente me ne infischio, dunque eccomi qua, temibile strega armata di Times New Roman e non di scopa. Sin dalla fanciullezza ho sempre tifato per le fattucchiere, a partire da Amelia che si scervellava per sottrarre il decino a Paperone, proseguendo con le varie Magò e Malefica della situazione, raggiungendo l’apoteosi con le perfidone descritte da Perrault e dai fratelli Grimm. Questa partecipazione emotiva è sopravvissuta ai roghi del Medioevo, ha sfilato nei cortei delle Suffragette e a quelli delle “streghe” sessantottine.
Proprio loro, le gagliarde pulzelle che combattevano in nome della loro dignità avrebbero di che inorridire dinanzi alla triste piega che hanno preso gli eventi un po’ in ogni dove. In principio era la Lewinsky, poi fu la volta del Bunga Bunga, in un tale tripudio di avvinghiamenti suineschi (eh sì, avete letto bene, ve lo virgoletto anche, “suineschi”: abituatevi fin da subito a codesti neologismi, per la serie “Quando l’Italiano non basta più”) che al confronto Cinquanta sfumature di grigio pare il libro Cuore; non credo proprio che quelle ardite guerriere quando nel ’68 gridavano “L’utero è mio e lo gestisco io” per diritto sul proprio corpo intendessero propriamente questo connubio tra hARdCORE (le maiuscole hanno un senso, badate bene) e Drive In.
Fatto sta che l’abbecedario del Sexgate in un’escalation di prime pagine piccanti è giunto alla M di Minetti, che infervora i voyeuristi de’ Noantri un giorno sì e l’altro pure con le sue trovate, come la sfilata per Parah condita da sorrisi a trentadue denti e dichiarazioni sconcertanti, una su tutte “Non mi dimetto”… Già, proprio una gran para(h)cu… Ehm, non vorrei trascendere nella volgarità.
Un’altra M che in questo periodo catalizza l’attenzione di chi vuole preoccuparsene è quella di Middleton, suo malgrado paparazzata fronte/retro mentre in compagnia dello stracchino reale e consorte
si cambia il costume in quel di Provenza. Sorprendente è stata la risposta fornita al Sun da Kim Henningsen direttore del tabloid danese Se og Hør reo di aver dato in pasto all’opinione pubblica le immagini. Gli chiedono se avrebbe mai pubblicato le foto della principessa Mary di Danimarca desnuda (domanda alquanto bislacca) e lui piccato e fiero replica “Lei sa comportarsi da membro della famiglia reale. Impossibile trovarla in foto di quel tipo”, sfoggiando una modernità di pensiero riguardo l’etichetta da seguire per le nobili (!?) donzelle pari a quella di Enrico VIII. Ebbene, in questo frangente il mio pensiero corre a un’altra Kate dotata di M: Kate Millett, classe 1934, femminista americana autrice de La politica del sesso (1970), libro tratto dalla sua tesi di Laurea. Il filo conduttore dell’opera è che “L’oppressione sessuale è dominio politico”.
I media di oggi e di ieri mettono lo zampino in tal senso rifilandoci servizi, fotografie e articoli che forniscono un’immagine spesso distorta della donna, quantomeno non variegata, certamente stereotipata. In tutto ciò il sesso femminile rimane con le mani in mano, non è più in grado di agire, ribellarsi e/o mandare tutti al diavolo, la sua autodeterminazione perisce a colpi di scoop. Ora, che tu sia volutamente o accidentalmente la reginetta in carica del mutatis (s)mutandis cartaceo e gossipparo sono fatti tuoi, ciò che risulta insopportabile è come ogni volta se ne debba fare una questione di Stato, anche quando lo Stato non è il nostro. Mi sa che da brava strega butto tutta questa robaccia nel mio calderone, mescolo vigorosamente traendone due portentosi elisir, ossia un bel libro della “Millettona” per me e un confetto Falqui per certi giornalisti: basta la parola!!