Crib-bio: le vie del bio sono (in)finite
Ogni secolo che si rispetti ha la sua inevitabile congerie di dibattiti filosofici sugli argomenti più disparati (e disperati).
Riassunto delle “puntate” precedenti, modalità Bignami, per chi si fosse perso qualcosa: l’Illuminismo proponeva di scacciare dalle menti degne di questo nome la superstizione e l’ignoranza, il Neoclassicismo ambiva alla "restaurazione" intesa come recupero delle forme classiche alla faccia del Barocco, il Romanticismo promuoveva l’immaginazione e il sogno, la contemplazione che si perde nell’estasi artistica, supremo oblio: “Bellezza è verità, verità è bellezza”, languivano attraverso queste immortali e sublimi parole i ventiquattro anni di Keats, che abbandonerà i figli d’Adamo nemmeno ventiseienne privandoli anzitempo della sua umile immensità.
Ma qual è la grande querelle del XXI secolo, a cagione della quale volano strali avvelenati e cadono teste sul patibolo dell’ideologia, ahinoi? Il fruttarismo: praticamente siamo alla frutta. Eh sì, secondo alcuni infatti sarebbe possibile sopravvivere con una dieta a base di frutta e ortaggi, in taluni estremi casi aspettando che il vegetal alimento in questione si distacchi in modo naturale dalla sua sede per non ledere la pianta d’origine, sia essa albero o cespuglio.
È lapalissiano come certe diete siano il frutto (tanto per restare in argomento) borghese-chic del benessere in cui si crogiola una porzione di mondo in fin dei conti poco sostanziosa. La scelta in tutte le sue espressioni, alimentare compresa, nasce da una libertà e da un’autonomia che non tutti hanno a portata di mano: in un Paese flagellato dalla guerra o dalla carestia, l’essere vivente, sia esso onnivoro, carnivoro, vegetariano, crudista, fruttariano o vegano si adatta a mangiare quello che c’è, si tratti di carruba o coscia di pollo.
Quando c’è in gioco la sopravvivenza, quella vera, non c’è sofisma che tenga e la maggior parte di noi con le spalle al muro potrebbe non fermarsi a riflettere sull’alimentazione dell’Australopithecus o sulla dentatura dell’Homo sapiens prima di addentare qualcosa.
Si potrebbe disquisire a lungo in favore dell’una o dell’altra teoria, obiettando che queste “filosofie” alimentari nascondendosi dietro uno sconfinato e legittimo amore nei confronti degli animali, sembrano dettate dalla moda o dall’ossessione nei confronti del proprio peso, contrapponendo a questa tesi il fatto che lo stile di vita “carnivoro” non sia etico ed ecosostenibile, per contro affermando che la carne, soprattutto quella rossa sia dannosa qualora se ne abusi, ma che d’altra parte il ferro contenuto in essa sia indispensabile per l’organismo.
Una cosa è certa: non ci si può improvvisare dietologi affermando che privandosi della carne si acquisiscano dall’oggi al domani potenzialità e vigore inusitati degni della donna bio-nica, o con cipiglio darwiniano sostenere che la teoria evolutiva ci vorrebbe se non vegani, quantomeno vegetariani dato che l’uomo non è provvisto di artigli per cacciare o di spaventevoli zanne alla tigre dai denti a sciabola per annichilire la preda.
Sì, certo. D’altra parte madre natura non ci fa nascere con una folta pelliccia ma ignudi come vermi, nonostante questo, con sommo scorno per lei, troviamo saggio girare con un vestiario anche sintetico adeguato alla stagione se non vogliamo ritrovarci con due stalattiti sotto le ascelle in inverno o affumicati come würstel in estate.
Altra questione invero spinosa ai giorni nostri è quella dell’”agricoltura biologica”, così come viene definita dai più. Fino al XIX secolo gli unici esperimenti vegetali plausibili erano alla stregua degli incroci fra piselli odorosi effettuati da Mendel e non ci si poneva nemmeno il problema che un alimento potesse essere “bio”, nel senso che il rispetto del ciclo della natura era pressoché insito nel concetto stesso di agricoltura, la rotazione delle colture non era una geniale trovata ma la normalità, non esistevano mefitici pesticidi e la questione OGM era un incubo di là da venire.
Sugli scaffali dei supermercati non si trovavano arance cerate identiche fra loro e lucide come palle da bowling, frutta di stagione tutto l’anno o frutti esotici provenienti da chissà quale remota parte del globo, perché, a dirla tutta, i supermarket nemmeno esistevano.
Il messaggio diffuso dai sostenitori dell’alimentazione biologica è condivisibile; nonostante l’assoluta bontà del concetto, mi chiedo come sia possibile passare dall’astrazione alla dimostrazione: non tutti hanno la possibilità di avere un appezzamento, ma che dico, anche solo un orticello per far fronte alle proprie esigenze alimentari o l’opportunità di acquistare il cibo dal produttore al consumatore senza intermediari, fermo restando che non possiamo essere certi della genuinità dei metodi di coltivazione impiegati.
In ogni caso, qualsiasi espressione di agrosistema ha un impatto ambientale, poiché l’intervento antropico in un modo o nell’altro agisce sull’ecosistema. Che dire poi dell'inquinamento delle falde acquifere, che potrebbe vanificare gli sforzi del più integerrimo fra gli agricoltori?
Gli interrogativi sono davvero molti, i supermercati del biologico davvero pochi: non sono certo diffusi a macchia d’olio sul territorio, senza contare che il suddetto cibo spesso ha prezzi tutt’altro che contenuti. E questo vale anche per uno shampoo bio.
Come molti consumatori da svariati anni sono interessata al discorso INCI, l’International Nomenclature of Cosmetic Ingredients, l’elenco dei componenti presenti in un determinato prodotto per la cura della persona. Frequento assiduamente blog e siti dedicati, dove le sostanze potenzialmente tossiche e per nulla ecosostenibili sono segnalate mediante pallini in stile semaforo, dove il rosso indica una sostanza inaccettabile, mi informo sul fatto che un prodotto sia o meno cruelty free e presenti le opportune certificazioni, attestate dai controlli Icea-Lav (Istituto Certificazione Etica e Ambientale in accordo con la Lega Anti Vivisezione).
C’è da dire questo: anche la più rassicurante delle diciture può non essere una garanzia, quando leggiamo che "il prodotto finito non è testato sugli animali" ciò non toglie che le singole sostanze possano essere state adoperate sulle povere bestiole, o che un’azienda con tutte le carte in regola da questo punto di vista possa essere acquisita da un gruppo leader nel settore che sperimenta notoriamente sugli animali.
Ci si può definire animalisti e ambientalisti a cuor leggero mangiando vegetali ma adoperando trucchi e belletti dall’INCI abominevole? Altra enooorme parentesi bisognerebbe aprire sull’abbigliamento, sulla tecnologia, sull’arredamento: è legittimo, ad esempio per un vegano, possedere il cellulare all’ultima moda che è tutto fuorché bio?
Ancora, è coerente diffondere il proprio verbo alimentare postando sui social network foto di animali vivisezionati e seviziati quando magari si tengono in minuscoli appartamenti bestiole o bestioni che avrebbero bisogno di un adeguato spazio (vitale)?
In ultima analisi, secondo voi è un’efficace strategia di sensibilizzazione il vegan-choc manifestone apparso di recente a Grosseto e in altre città d’Italia, che propone un bambolotto confezionato a pezzi con tanto di slogan dal sapore provocatorio: “Chi mangi oggi?”?. Beh, per quanto mi riguarda non ho mai creduto nello spot che porta all’illuminazione, quindi se una campagna pubblicitaria non mi può convincere ad acquistare una maglietta tantomeno mi farà raggiungere il nirvana edibile. Ciononostante: “Ai posteri l’ardua sentenza”…