Donna Costituzione? È la più bella del mondo!
Mi garba assai associare le parole “Donna” e “Costituzione”. E, per la serie “etimologia portami via”, vi ricorderò che il termine “donna” deriva dal latino dŏmĭna, ovvero padrona e signora della dŏmus, che un tempo indicava la dimora signorile e oggi ritroviamo nella forma Duomo, che letteralmente è appunto la casa del Signore, mentre Costituzione nasce dal latino constĭtutĭo (costituzione fisica), nato a sua volta dal verbo constĭtūĕre, cioè collocare, fondare: entrambe le parole fanno pensare a qualcosa di saldo e imprescindibile, legato a un porto sicuro.
Questa è la fulminea riflessione che è balenata nella mia mente appena ho sentito che l’omaggio alla Costituzione da parte di Benigni si sarebbe intitolato “La più bella del mondo”. Quando un messaggio si uniforma al mio modo di pensare e fa breccia nella mia immaginazione provo uno sbigottimento tale, un entusiasmo pari a quello di un bambino che vede per la prima volta un fiocco di neve. Mi capita sovente dinnanzi all’Arte: leggendo I Promessi Sposi e l’Adelchi del mio amato Manzoni, Le Metamorfosi di Ovidio, La casa in collina di Pavese, guardando L’albero degli zoccoli di Ermanno Olmi, ammirando Amore e Psiche di Canova o La Vergine delle Rocce di Leonardo, ascoltando la Turandot di Puccini.
Ho provato un’analoga seppur differente emozione ascoltando il meraviglioso monologo di Benigni sulla Costituzione trasmesso da Rai Uno in prima serata lunedì 17 dicembre, ma che io come sono solita fare ho rintracciato il giorno successivo in Internet gustandomelo per conto mio: a suo tempo mi sono rifiutata di comprare il decoder per il Digitale Terrestre poiché non tollero una simile imposizione “bulgara” che è andata a rimpinguare le tasche dei soliti (ig)noti, dando in cambio la medesima accozzaglia di programmi idioti. L’80% di ciò che guardo lo seleziono attraverso YouTube creandomi l'Informazione su misura che mi calza a pennello come un abito di sartoria.
Questo componimento per i più è qualcosa di misterioso e statico come solo la mummia di Tutankhamon sa essere, è un argomento a dir poco temerario per gli standard culturali odierni, intrisi di una volgarità espressiva e di pensiero tale che a confronto il cinepattone è Superquark, una miseria intellettuale in cui ingordi satrapi e scribacchini prezzolati sguazzano gustosamente, lordando la Res publica, così come i compagni di Ulisse trasformati in sozzi porci da Circe si crogiolano nel fango, caratterizzati e ridicoli più di un personaggio di Plauto.
Qualcuno si affretterà a dire (e in effetti ha già affermato) che Roberto Benigni è un populista profumatamente pagato, seguendo la tristissima moda di affibbiare delle etichette prestampate al pensiero, come se fosse un barattolo di marmellata preparato da Suor Germana.
Per quanto mi riguarda se quel che ascolto o leggo stimola le mie riflessioni con arguzia, ironia e grazia, ciò mi è sufficiente per non pormi il problema di scadere in una banale definizione. Se poi penso che a ogni piè sospinto vi sono iconoclasti redarguiti a suon di milioni per appioppare al prossimo interviste televisive farlocche e laide a individui beceri il cui “puzzo” costringe a turarsi precipitosamente le nari e nei casi più estremi a farsi un aerosol di Air Wick, il problema dello stratosferico cachet elargito non mi turba più.
Mi beo alla sola vista della Costituzione Italiana, un girasole di speranza fiorito su un’orrida distesa di letame e sangue sparsa dalla guerra, scritta con il contributo di una Senectute illuminata e preziosa e di giovani nelle cui orecchie echeggiavano ancora l’urlo dell’allarme antiaereo e l’eco delle bombe, mani tremanti e occhi sgranati, ma che nonostante ciò non hanno smesso di credere nell’Uomo e hanno creato e promosso questo scritto al contempo umile come un filo d’erba ed elevato e luminoso come la Stella Polare. Il Faro di Alessandria del vivere civile. Una festa per l’intelletto, una gioia per la Natura Umana.
Scorgere Benigni che da lontano mi ricorda vagamente Charlot con quella giacca e quei pantaloni flosci, vederlo emozionarsi ed entusiasmarsi come un pargolo davanti all’albero di Natale citando uno a uno i Dodici Principi Fondamentali del nostro Vivere Civile, sentirlo parlare della bellezza insita in quelle frasi, con calore, con un trasporto che non può nascere solo dall’abitudine alla maschera dell’uomo di spettacolo, mi ha veramente commosso.
Una vera e propria ode a questa "creatura" approvata dall’Assemblea Costituente il 22 dicembre 1947 e divenuta ufficiale il 1° gennaio 1948, genuina come una fanciulla nata e cresciuta in campagna e al contempo solida e saggia come una matrona della Resistenza, dileggiata da esseri dappoco, speculatori che l’hanno venduta per trenta denari, che le hanno infangato le vesti costruendole intorno una prigione di umiliazioni continue, buia e profonda come la notte più oscura, che è la tenebra del pensiero, che le impediscono tuttora di ammirare le stelle e raggiungerle: questo è il suo destino, splendere nel firmamento della Ragione.
I suoi punti riassumono sapientemente secoli e secoli della più fulgida Filosofia Antica e Moderna, basti citare l'Articolo 2: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. Qui c’è da ammattire veramente dalla grandezza di questi concetti, c’è da perdere il senno come Orlando, bisogna precipitarsi a recuperarlo sulla Luna.
S'ode l’eco del pensiero illuminato di Luigi Einaudi e di Alcide De Gasperi, di una giovanissima Nilde Iotti e di un altrettanto giovane Aldo Moro, di Lina Merlin (prima donna a essere eletta al Senato) e di Palmiro Togliatti, di Giorgio La Pira e di Benedetto Croce, di Piero Calamandrei e di Ugo La Malfa (Benigni nella foga del momento lo confonde col figlio Giorgio) solo per nominare alcuni deputati dell’Assemblea Costituente, uniti e compatti nel disprezzare l'atrocità della guerra tanto da metterlo nero su bianco attraverso l'Articolo 11: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali […]".
Una semplicità niente affatto scontata, la stessa delle parole di Calamandrei nel suo Discorso sulla Costituzione del 26 gennaio 1955 pronunciato a Milano, destinato agli studenti presenti: “[…] No, non è una carta morta, questo è un testamento di centomila morti. Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero perché lì è nata la nostra costituzione”.
Grazie a parole come queste noi Italiani possiamo camminare a testa alta, ritrovare la speranza, il coraggio di alzare il capo in un momento storico che non risparmia alcuno anche solo per dire alla nostra Costituzione, più radiosa di una qualsiasi damigella cantata dal Dolce stil novo, “Buongiorno, Principessa!”.