Dracula, Dracula, Dra’?! Cha Cha Cha!
Era una notte buia e tempestosa… E io avrò avuto quattro anni, o poco meno, quando per la prima volta vidi un vampiro. Lo rimembro come fosse ieri. Stavo sorbendo una camomilla, paciosa e serafica, seduta sul divano fra mia madre e mia zia. Fatto sta che, complice uno sciagurato zapping, ahinoi, all’improvviso comparve un orripilante, agghiacciante primo piano del Conte Dracula in 40’’. E io sobbalzai a tal punto da mandare in orbita l'innocente bevanda, rischiando di regalare un impacco bio(il)logico per capelli fuori programma all’intera combriccola. E trauma fu.
Crescendo, l’interesse per la materia non è affatto scemato. Un intento di conoscenza puerile volto a esorcizzare la paura si è trasformato in una ricerca vera e propria, non priva di una certa dose di ironia. Nel corso degli anni mi sono appassionata a tutto ciò che fosse attinente al mondo “vampiroso”: a 11 anni in occasione di una sfilata in cui bisognava camuffarsi da animale, ne approfittai per andare fuori tema travestendomi da pipistrello-vampiro, sissignori, con tanto di mantello nero, orecchie a punta e dentini aguzzi. Il mio incedere era talmente teatrale, lo sguardo così spiritato e ipnotico che al confronto Bela Lugosi e Christopher Lee sembrano Stanlio e Ollio.
Quando ancora avevo i canini da latte ho divorato la saga di Vampiretto edita dalla Salani e tutti i Piccoli brividi pubblicati sull’argomento. Da grandicella ho “azzannato” l’ABC del vampiro modello, ovvero l’inossidabile Dracula di Bram Stoker, Carmilla di Le Fanu e Il Vampiro di Polidori. Ho visto innumerevoli film, da Nosferatu il vampiro di Murnau (che gli valse una denuncia per plagio da parte degli eredi di Stoker) fino a Hotel Transylvania (se mai lo vedrete non perdetevi nemmeno un minuto dei titoli di coda, sono incantevoli), saltando a piè pari la saga letteraria e cinematografica di Twilight, che in entrambe le sue manifestazioni mi è più indigesta dell’aglio: dopo aver ammirato Gary Oldman nei panni del fascinoso non-morto (pensate al lui nelle vesti del gentleman con occhialino schermato e tuba, non al vegliardo con la balzana cofana bianca) la sola vista di quell’anatra all’arancia tutt’altro che sanguinella di Pattinson mi fa più ridere di Leslie Nielsen in Dracula-Morto e contento.
Ho scandagliato il mito del vampiro dal punto di vista etnologico e sociologico, nonché storico. Dracula! Chi era costui? Ricapitoliamo: abbiamo un nobile dissoluto, un filino anemico, che ama bighellonare di notte come i chirotteri, mordace ed elegante come un dandy: poffarbacco, stiamo forse parlando di Lord Byron? No, solo di una serie di attributi invisi ai più, il solito capro espiatorio, ecco la reale natura del nostro conte.
Ho riflettuto sulle condizioni di un malato di porfiria o tubercolosi, patologie stoltamente e insensatamente associate al vampirismo, triste analogia che nei momenti più bui ha scatenato una vera e propria “caccia alle streghe”. Se ci pensiamo lo stesso vampirismo è visto come un contagio, una sorta di Peste o lebbra, calamità che ciclicamente hanno afflitto l’uomo rendendolo sempre più superstizioso: da qui all’accanimento contro le bestiole del creato il passo, purtroppo, è breve e l’odio contro i pipistrelli, creature notturne e schive invero estremamente utili all’uomo, in quanto si cibano di un considerevole numero di parassiti ne è un esempio lampante.
Quando mi sono recata a Innsbruck ho potuto ammirare presso il Castello di Ambras il ritratto del temibile Vlad III, Principe di Valacchia, andando davvero in sollucchero. Gongolo all’idea che quest’anno ricorra il centenario della morte del buon Abraham e che alla Triennale di Milano vi sia una mostra denominata Dracula e il mito dei vampiri (posto che la visiterò spero sia stata organizzata nel migliore dei modi, perché generalmente eventi di questo tipo o sono molto interessanti o si rivelano ciofeche, irritandomi assai) in collaborazione con l’AVIS: agli appassionati del genere dovrebbe far più gola di una giugulare.
Non fosse che in un locale di Venezia c’è chi avrebbe preferito nel vero senso della parola un banchetto venoso. I giornali riportano infatti la notizia che il gestore di un locale avrebbe sottoposto gli avventori a rituali di iniziazione vampirica, che si traducevano nell’offrire loro il proprio sangue con la promessa di trasformarli in creature delle tenebre di successo: ricchi premi e cotillon, in sostanza. Sui giornali si legge che il locale è stato alfine chiuso, gioverà ricordare, inoltre, che le sanguisughe più assetate dei giorni nostri si chiamano “Conti” Spread e non temono affatto la luce del sole, perciò riponete pure il girocollo all’aglio nel portagioie e riposizionate sotto la sedia in frassino del salotto la gamba che avete sradicato, papabili Van Helsing sintonizzati su queste frequenze.
Nel corso dei secoli gli uomini hanno praticato svariate forme di cannibalismo, da quello rituale dell’eroe che si cibava del nemico sconfitto e ne beveva il sangue per acquisirne la forza e il prestigio in tempi remoti ma non troppo, al cannibalismo moderno, quello delle idee. Quest’ultima forma di fagocitazione è spesso supportata dai mass media, che giorno dopo giorno ci propinano ogni tipo di efferata violenza prêt-à-porter, sotto forma di fiction, serie Tv o quant’altro passi, primo fra tutti, il “tele-convento”. Circolano informazioni che riescono a sobillare le menti più deboli, ponendovi il germe della malsana idea che tutto ciò che di più bislacco vediamo sul piccolo schermo possa essere traslato con successo nella realtà, perdendo invero il contatto con essa: qualcosa del tipo “Mi presento, sono un vampiro, eccoti un Bloody Mary, solo Bloody e per nulla Mary, elisir di lunga vita che ti consentirà di diventare a tua volta bello, ricco e famoso”.
Cosa c’è all’origine di un atto simile? La noia di Moravia, Il male oscuro di Berto, Il piacere di D’Annunzio? Niente di tutto ciò. L’ingrediente principale è il miraggio della ricchezza che conferisce potere, financo l’immortalità. La roba di Verga, l’accumulo sterile. Ma anche una buona dose di esacerbato edonismo bovarista, senza un briciolo della poesia di Flaubert. Una spolverata di Superomismo nietzschiano e la ricetta è completa.
L’autocompiacimento materialistico per taluni è così perentorio e invitante che nei casi più estremi può tradursi in un (p)assaggio di emoglobina. Quando leggo una notizia così bizzarra, quando vedo che davanti a me si assottiglia il confine fra realtà e fantasia, penso alla canzone di Gaber, Far finta di essere sani. Perché la mente ci autorizza a credere che una storia nostra, positiva o no, è qualcosa che sta pur sempre dentro la realtà (geniale e disarmante riflessione questa, come mille altre, del Signor G). Anche quando è più inverosimile del più risibile film di serie B (Rh negativo).