E la vita l’è bèla, l’è bèla… basta avere l’ombrèla
Il 29 marzo se n’è andato il grandissimo Enzo Jannacci. E nella mia testa si è scatenato un turbinio di memorie sonore, fatto di mitiche audiocassette e mastodontici Hi-Fi, di leggendari 45 giri e granitici mangiadischi rosso pomodoro.
Uno dei miei primi ricordi musicali è legato a una cassetta di Cochi e Renato, Il poeta e il contadino, i cui brani (tranne uno, La cosa) sono stati scritti proprio in collaborazione col poliedrico cantautore.
Essendo mia madre una grande estimatrice del duo, spessissimo risuonavano per casa le loro canzoni, che inizialmente da bambina qual ero mi “acchiappavano” per il ritmo incalzante ma soprattutto per la spassosa pronuncia di Renato Pozzetto, che quando per esempio sibilava e raddoppiava la “s” con l’intento di dire “bissie” o “strissie” mi metteva di buon umore anche quando avevo un diavolo per capello.
Ben presto ho iniziato a interrogarmi sul reale significato delle loro parole, perché pur essendo apparentemente testi buffi e scanzonati, c’era qualcosa che non mi quadrava affatto. Ascoltando A me mi piace il mare, ridevo e mi impensierivo allo stesso tempo, perché percepivo il contrasto tra strofe del tipo “Davanti ancora una roba buttata giù per terra tipo farina, però essa è sabbia” e altre come “Non si sa mai quello che al mondo ci può capitar”.
Ecco quindi che fra i sette anni e nove anni i miei indiscussi idoli musicali erano Cristina D’Avena, Michael Jackson, Freddie Mercury e Cochi e Renato: bizzarro frappè canoro e sonoro, non c’è che dire.
Tutto ciò naturalmente non era privo di rischi, poiché mentre nel caso dei primi tre possedevo materiale di mia esclusiva proprietà, per quanto riguarda Il poeta e il contadino mi improvvisavo Arsenio Lupin trafugando di nascosto la già citata preziosa cassetta per servirmene a mio piacimento.
Quando successivamente mi sono imbattuta in Vengo anch’io. No, tu no, senza ancora sapere chi la cantasse, l’impressione agrodolce avuta con Cochi e Renato è stata la medesima e musicalmente parlando mi sono sentita subito “a casa”, perché mi ricordava lo stile dei miei beniamini. Crescendo e investigando mi sono accorta di averci visto giusto, dato che i tre negli anni ’60 si sono fatti le ossa condividendo l’amicizia, i testi e l’esperienza del cabaret che li porterà al Derby di Milano, da cui spiccheranno il volo.
La parabola artistica di Jannacci si delinea tra televisione, teatro e concerti ed è caratterizzata da una vena surreale e malinconica talmente arguta da mettere inesorabilmente in moto i neuroni di chiunque si soffermi a ragionarci sopra. Oggigiorno un simile approccio è praticamente in via di estinzione, perché non conta quello che si dice ma chi lo dice.
Paradossalmente, soprattutto in ambito musicale, si potrebbero trasmettere solo le immagini del performer e il risultato sarebbe lo stesso: interessa il “confezionamento” del prodotto, non la canzone in sé (infatti pochissimi acquistano CD o brani musicali online, in compenso i più si prodigano nell'imitare il look del cantante modaiolo del momento).
Gli eventi hanno preso questa triste piega a partire dagli anni ’80, quando via via si sono affermati “artisti” che pur non sapendo scrivere o cantare tuttavia hanno riscosso un immediato successo in virtù del loro fascino o della loro attitudine fashionista: la musica insegue la moda e le major gongolano.
Gracidi come una rana? Hai difficoltà a buttare giù la lista della spesa, figuriamoci una canzone? In vita tua hai suonato solo il citofono? No problem, basta la tua "carrozzeria": buttati addosso gli abiti più improbabili, chiedi al parrucchiere una stravagante e monumentale cofana e la folla beota andrà in visibilio.
Che tristezza!
Quando sento del buon Metal (la mia vera passione musicale) o del sano Rock d’annata, quando mi dedico all’ascolto dei miei cantautori italiani di riferimento, quando guardo il video del brano E la vita, la vita, sigla di chiusura ironica e al contempo amara di Canzonissima, scritta da Pozzetto-Jannacci, quasi mi dimentico di questo scempio musicale.
Ascoltando il 90% dei brani del 2013 vedo e sento canzoni "in bianco e nero". Ammirando grazie ai filmati d'epoca un immortale e giovane Jannacci che canta improvvisando "scattosi" balletti Ho visto un re oppure Aveva un taxi nero da sotto i suoi occhialoni, sentendolo intonare La luna è una lampadina, pensando a lui e al suo sodalizio artistico con Dario Fo e Giorgio Gaber, percepisco un mondo e una musica "a colori".