Il riposo della strega. Et alia.
Istruzioni d’uso: in questo post non troverete futuristiche parole in libertà su un singolo argomento, bensì un ribollente calderone di pensieri, assolutamente consono alla natura di una strega, sui più disparati e soprattutto disperati accadimenti. Controindicazioni: cortocircuito sinaptico e sinottico.
Orbene, in questi mesi di assenza "bloggistica", ho riflettuto sull’opportunità e il senso di esprimere un qualsivoglia messaggio nel siffatto, disastroso momento storico. Le prime pagine dei giornali ci riportano indietro di secoli (bui): la mia percezione degli eventi oscilla freneticamente, spinta dalla grottesca necessità di pescare nel tempo alla ricerca di una qualche (deprimente) similitudine col presente: a volte la colgo nel 54 d.C., altre nel 1099 o nel 1347.
E su quest’ultima data, che per inciso è quella dell’avvento della Peste Nera in Europa, aprirò una macroscopica parentesi: sento ancor più vicina a noi l’epoca della nefasta pestilenza, quando, ahinoi, in giro per Treviso mi capita di scorgere immondi ratti (e già qui mi sembra di udire l’infinito lamento musicato dal nostro anonimo lirista-animalista-presenzialista, novello Orfeo, il quale ha più caro il “leggiadro” ratto, inteso come baffuto rattus, non solo dell’amabile ninfa Euridice ma anche delle sventurate Sabine) anche in prossimità dei bidoni della Contarina, cosa non rara da quando vige la legge del contenitore selvaggio en plein air in nome dei nuovi dettami della raccolta differenziata.
Peccato che “laggente” così moderna nel produrre pattume hi-tech, spesso si riveli meno civile dell’australopiteco Lucy nello smaltirlo, in quanto: A) abbandona i rifiuti in prossimità ma non all’interno degli appositi contenitori, B) ha preso la funesta abitudine di riempire con orridi sacchetti anche i piccoli bidoni sparsi qui e là, che al massimo dovrebbero servire per buttare la coppetta vuota del gelato, C) non chiude a dovere i sopracitati bidoni nella foga di liberarsi del fosco lerciume, creando un disagio non solo meramente tecnico ma anche visivo che nemmeno fuori dai peggiori bar di Caracas si vede una tale lordura.
Chiusa parentesi.
Riprendendo le fila del ragionamento interrotto dalla Peste, altre volte nei nostri mala tempora avverto delle somiglianze con "ameni" periodi quali il 1939 o il 1961… C’è poco da rallegrarsi, con siffatti paragoni. Eppure se ne possono trovare con facilità una moltitudine: sfogliando gli anni come si farebbe con una vecchia e polverosa enciclopedia, che per quanto consunta e corrosa dalle generazioni, può rivelarsi davvero preziosa dal punto di vista dei contenuti, ne saltano fuori delle orripilanti “belle” congruenze con la nostra cosiddetta età del progresso illuminato e illuminante, che a guardar bene non è poi così sfolgorante come sembra.
Ovviamente la storia è ciclica, naturalmente la madre degli stolti è sempre incinta, probabilmente si stava meglio quando si stava peggio, ecc. ecc. Pur avendo una prodigiosa scorta di avverbi e luoghi comuni da far impallidire qualsiasi Tg nazionale, mi fermo qui, per pormi la cruciale, fatidica domanda: davvero le zucche dei contemporanei, giovani o meno, sono vuote quanto quelle di Halloween, con tutto il rispetto per le simpatiche cucurbitacee in maschera? Perché mi sembra assurdo che in questo clima potenzialmente più atomico e post-nucleare di un film di Hayao Miyazaki, non si levi un coro, ma che dico, non oso sperare tanto, mi basterebbe una voce, contro lo scempio guerrafondaio che insozza il pianeta.
Diamine, nel 1967 I Giganti cantavano: “Mettete dei fiori nei vostri cannoni perché non vogliamo mai nel cielo molecole malate, ma note musicali che formino gli accordi per una ballata di pace”. Evidentemente due domande sulla situazione del momento se l’erano poste, quei baldi giovani. Mi sconcerta, questo silenzio “dell’esercito del surf”, mi tormenta senza posa.
Oggigiorno un adolescente non solleverebbe gli occhi dalla console di turno nemmeno in presenza dei Rosa Elefanti, del Brucaliffo e del genio della lampada messi insieme (e qui ne approfitto per congedarmi non senza tristezza dal grande Robin Williams, caleidoscopico doppiatore del succitato genio nella versione Disney, colui che in tenerissima età mi ha fatto desiderare ardentemente un’astronave a forma di uovo e successivamente, cosa non certo di minore importanza, mi ha “presentato” Walt Whitman), vabbe', è un dato di fatto.
Quando per brevi momenti esce dallo stadio videocatatonico in cui langue, invero trova anche il tempo di protestare per tutto, ma non che partorisca un sonetto, un verso, che dico, un endecasillabo sia esso piano, tronco o sdrucciolo su Gaza, Libia, Ucraina e chi più ne ha più ne metta in questo sventurato periodo di guerra civile globalizzata. Un silenzio del genere è talmente assordante da risultare paradossalmente parossistico.
Non pretendo un John Lennon o un Bob Marley in erba, un paladino del pentagramma cervello e chitarra alla mano insomma, mi basterebbe uno scalcinato menestrello idealista.
Già che ci sei, giovane menestrello all’ascolto, nelle tue rime metti due parole anche per l’immenso Dino Campana, autore dei mai sufficientemente letti e ricordati Canti Orfici, dei quali abbiamo festeggiato il centenario a giugno 2014 (il contratto di stampa del suddetto capolavoro risale al 7 giugno 1914): le celebrazioni per inciso si sono svolte nelle tenebrose catacombe dell’ignoranza metafisica e pragmatica che contraddistingue l’odierno panorama culturale italiano, ossia attraverso un quasi assoluto silenzio da parte dei mass media nostrani, in quel periodo troppo occupati nell’affannosa cronaca minuto per minuto dei mondiali di calcio… Eh già… Mala tempora currunt, non c'è che dire.