TTIP! Chi era costui? (Primo Tempo)
Quando per la prima volta mi sono imbattuta in questo acronimo mi sono sentita esattamente come Don Abbondio, il quale, seduto sul suo seggiolone, ruminava fra sé e sé per cercare di ricordare chi mai fosse Carneade, filosofo scettico (bei tempi quelli in cui lo scetticismo era ancora in voga!).
Come pronunciarlo, poi? Alla Nando Mericoni (l’indimenticabile americano a Roma di Sordi) “titiaipì”, America me senti? O lettera per lettera, “Ti-ti-i-pi” tipo confraternita studentesca, Alfa-Beta-Gamma? Niente di tutto ciò! La pronuncia corretta era infatti “titìp”, alla Totip: sul fatto che il trattato fosse un azzardo, quindi, non avevo dubbi.
Già, trattato, perché questo TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership) era conosciuto anche col nome di “trattato transatlantico” (non so voi ma io collego sempre quest’ultima parola al Titanic, quindi tra azzardo e navi che affondano le mie associazioni di idee sull’argomento non erano affatto rassicuranti).
La puntata di Report del 19 ottobre 2014 è stata determinante per schiarirmi le idee, perché prima di allora le notizie che circolavano sul web erano piuttosto frammentarie e nebulose (non in senso astronomico, purtroppo).
Che cosa fosse il TTIP, ordunque, me lo hanno fatto comprendere appieno Milena Gabanelli e il suo staff (il montaggio dei primi cinque minuti di trasmissione è stato davvero illuminante): con quella sigla ci si riferiva a un trattato di libero scambio, che secondo quanto dichiarato da Renzi avrebbe avuto una valenza sia strategica che culturale (anche se a Montecitorio fino allo scorso ottobre nessuno fra gli intervistati sapeva di cosa si trattasse)… Peccato che pochi attimi dopo fosse andato in onda uno spezzone che mostrava i prodotti in vendita in un supermercato americano, fra i quali spiccavano un mestissimo provolone col 2, dico, 2% di latte, percentuale riportata trionfalmente a caratteri cubitali come se si trattasse di un formaggio DOP appena uscito da una malga nostrana, recante sul retro della confezione una ricetta denominata “Italian Turkey Burger”, spacciata come tradizionale italiana (come se i tortelli ripieni e le lasagne che mi preparava mia nonna fossero piatti tipici hawaiani) e un tristissimo sacchetto di pane ugualmente smerciato come prodotto tricolore, della stessa consistenza del pongo (inteso come plastilina e non come orangutan), alla faccia della rosetta, del pane di Altamura e della nostra cultura alimentare in generale.
Ma quali sono le origini del TTIP? Nel 1995 alcune fra le maggiori imprese statunitensi ed europee diedero vita al Trans-Atlantic Business Dialogue che negli anni si modificò dando origine al Trans-Atlantic Business Council, a tutt’oggi una potente lobby che comprende giganti della chimica, dell’industria alimentare, banche europee e americane e colossi della farmaceutica.
I negoziati sono stati avviati nel 2013: stiamo parlando di trattative segrete accessibili solo al governo degli Stati Uniti e alla commissione Europea, anche se nell’ottobre del 2014 è stato reso pubblico un solo documento di 18 pagine nel quale il TTIP viene definito come un accordo commerciale e per gli investimenti che ha lo scopo di implementare gli scambi tra Unione Europea e Stati Uniti, generando nuovi posti di lavoro.
I punti chiave del trattato sono: 1. L’abolizione dei dazi sugli scambi bilaterali di merci; 2. il potenziamento degli scambi di servizi e stabilimento (inteso come stabilimento di società sul territorio di ciascuna Parte: “Le Parti devono convenire di assicurare un trattamento non meno favorevole per lo stabilimento sul loro territorio di società, consociate o filiali dell'altra Parte di quello accordato alle proprie società, consociate o filiali, tenendo debitamente conto della natura sensibile di taluni settori specifici”); 3. la tutela degli investimenti; 4. gli appalti pubblici: “L’accordo deve essere volto a rafforzare l’accesso reciproco ai mercati degli appalti pubblici a ogni livello amministrativo (nazionale, regionale e locale) e quello dei servizi pubblici, in modo da applicarsi alle attività pertinenti delle imprese operanti in tale campo e garantire un trattamento non meno favorevole di quello riconosciuto ai fornitori stabiliti in loco”.
A quanto pare qualche mese fa l’ambasciatore americano in visita a Bruxelles ci ha tenuto a precisare che il trattato verrà ratificato a condizione che si raggiunga un accordo sul settore agroalimentare.
Il problema è che le etichette dei prodotti americani non devono riportare per legge la presenza di OGM.
E non sarà superfluo ricordare che in Colombia, nel 2013, dopo la ratifica del trattato di libero scambio con gli USA è stato vietato l’utilizzo dei semi nativi agli agricoltori locali con l’obbligo di piantare solo quelli “certificati” (la maggiorparte dei quali proveniente proprio dagli Stati Uniti), fatto che ha causato la rivolta dei campesinos nonché uno sciopero nazionale di 18 giorni, fenomeni duramente repressi dal governo colombiano (il bilancio di questi tragici eventi è di 12 contadini uccisi, 660 casi di violazione dei diritti umani, 485 feriti e 262 arresti).
CONTINUA