Un tè con Giulio Cesare
È la mezzanotte di un mercoledì come tanti. Sono appena rincasata e sto bevendo un tè caldo, una consuetudine che si ripete quasi ogni notte e che diviene imprescindibile man mano che ci addentriamo nell’autunno. Amo le stagioni fredde, sarà perché sono nata a gennaio, non lo so… Fatto sta che aspetto con impazienza l’oro e il rosso delle foglie, che malinconicamente planano lungo i viali alberati, disponendosi come vogliono, in modo casuale ma sempre artistico: camminandovi in mezzo ho l’impressione di saltare dentro un quadro (Bert, il caro amico di Mary Poppins, non se lo farebbe ripetere due volte).
Il tepore della tazza fra le mani e il profumo da essa sprigionato mi aiutano a concentrarmi, a riunire i miei pensieri quasi si facessero concreti. Sfilano davanti a me. Oppure piovono proprio come tante foglie d’autunno. Improvvisamente penso al caos che si sta scatenando nelle scuole di Roma, causato dai blitz (alcuni dei quali rivendicati dall’estrema Destra) di giovani che brandiscono fumogeni e slogan, che si susseguono dopo i primi due al “Mameli” e al “Giulio Cesare”, seminando il panico. Mi concentro su un particolare: questi ragazzi hanno un’età compresa tra i 16 e i 25 anni. Caino si scaglia contro Abele agitando striscioni come fossero bastoni.Tutto questo mi fa pensare a una canzone di Antonello Venditti, “Giulio Cesare”, scritta nel 1986 e dedicata all’omonimo Liceo Classico capitolino, ma soprattutto alla difficoltà di crescere.
Quando avevo diciotto anni e frequentavo il Liceo amavo crogiolarmi fra le note di questa canzone, ascoltavo molto la radio (andavo a caccia di Rock, Heavy Metal e dei miei cantautori italiani preferiti) rigorosamente nel cuore della notte, onde evitare il tedio che mi cagionavano gli speaker: il quadro che potete farvi sulla mia adolescenza “radio-dipendente” è simile a quello descritto nella canzone “Musica Ribelle”, Finardi docet. La felicità che provavo nel “beccare” un brano che mi piaceva saltando di stazione radio in stazione radio, era maggiore rispetto a quella ottenuta dalla premeditazione dell’ascolto da CD: “Eravamo 34, quelli della terza E, sconosciuto il mio futuro dentro me”. Quanti ricordi tornano alla mente: il portone di scuola in legno massiccio, che alle otto del mattino sembra ancora più imponente, la campanella che sta per suonare, devo correre in classe, dannato autobus in perenne ritardo. Prima ora: filosofia… Mannaggia, ancora Hegel! Io sarei stata fra quegli studenti che avrebbero seguito le lezioni di Schopenhauer, perdinci! E ci penso guardando di sottecchi la professoressa, che mi sembra più che mai avvolta dal velo di Maya, dal punto di vista filosofico ma anche fisico: la immagino infagottata come in un gigantesco bozzolo… Dal mio banco sogghigno sorniona a questo pensiero che si fa sempre più concreto nella mia mente (se avete presente la serie televisiva Ally McBeal e i suoi pensieri “materiali” capirete di cosa sto parlando).
Mentre rifletto su tutto questo il passato si fonde col presente, i pensieri della diciottenne del 2001 diventano tutt’uno con quelli della ventinovenne del 2012. Come sottofondo, sempre quella canzone: “Sta crescendo come il vento questa vita mia, sta crescendo questa smania che mi porta via”. Penso agli studenti di Roma, stanotte. Ai vènti impetuosi che li scuotono, al terrore che stanno provando, penso a Paolo Rossi, studente anche lui, diciannovenne ucciso nel 1966 all’Università “La Sapienza”. Eh già, il Paolo Rossi di cui parla Venditti nella sua canzone non è il famoso calciatore, ma il giovane morto in un raid, ammazzato da ragazzi come lui. E meditando su tutto ciò, cresce dentro di me un male di vivere inesplicabile. Ma come, dopo più di quattro decenni da quegli accadimenti si attuano ancora le stesse dinamiche (per fortuna senza conseguenze così tragiche)!? La strategia del terrore si perpetuerà nei secoli dei secoli in concomitanza con ogni ricambio generazionale? Non voglio e non posso crederci.
Quando ero un’adolescente credevo di sapere tutto, l’Oracolo di Delfi mi faceva un baffo… Ma se oggi guardo un/una diciottenne, con gli occhi di chi ha come unica, socratica certezza, quella di non sapere alcunché, mi sembra poco più che un bambino/a, davvero. Quindi mi rivolgo a te, diciottenne del 2012: anche se è dannatamente difficile avere la tua età, non fare della rabbia la tua unica ragione di vita. Pensaci un po’ su leggendo questo post, fammi una cortesia. Non si tratta di mera retorica, sai. Non ho la verità in tasca, io (nemmeno tu, del resto). E proprio perché non ce l’ho, l’unico rimedio per placare lo sgomento causatomi dalle notizie di guerriglia sopraggiunte in questi giorni è, nel 2001 così come nel 2012, ascoltare una canzone con una tazza di tè fumante fra le mani: “Nasce qui da te, qui davanti a te, Giulio Cesare”.