Vajont
Sono trascorsi 51 anni da quel 9 ottobre del 1963. Cinquantun anni. Nove ottobre del millenovecentosessantatrè.
Di oltre 270 milioni di metri cubi di rocce e detriti precipitati dal Toc nel sottostante bacino artificiale restano solo freddi numeri, duri come la realtà che evocano.
Ma procediamo con ordine. Per farlo è necessario tornare indietro nel tempo. Dispongo di tre mezzi che mi consentono di compiere questo viaggio a ritroso: Il racconto del Vajont, intenso spettacolo teatrale concepito da Marco Paolini e Gabriele Vacis; il saggio della giornalista Tina Merlin Sulla pelle viva. Come si costruisce una catastrofe. Il caso del Vajont e uno spezzone d'archivio tratto da Mixer in cui la intervistano, quasi 4 minuti (pochi ma buoni); infine il sito www.vajont.net: tutto questo costituisce un preziosissimo patrimonio culturale che vi suggerisco di consultare se già non lo avete fatto (sono elementi necessari ai fini della mia personale comprensione della vicenda e dai quali ho attinto a piene mani anche per la stesura di questo post).
Sono le 22:39, Longarone è gremita di persone: c’è la partita in Eurovisione, Real Madrid-Glasgow Rangers, sono quasi tutti davanti allo schermo. In quel mentre l’apocalittica frana inizia la sua scellerata corsa, trascinandosi dietro persone, abitazioni e campi coltivati, perché non dimentichiamo che quella famigerata fessura a forma di“M” lunga 2.500 metri visibile sulla montagna (comparsa nel novembre del 1960 a seguito di una frana avvenuta dopo il primo invaso fino a quota 650 metri) era brulicante di vita, non si trattava di nuda roccia inerte.
Questa massa ormai informe di persone, case e alberi dà origine a due ondate. La prima a monte, spinta a est verso il centro del Vajont, spazza via Frasèin, Col delle Spesse, Il Cristo, Patata e San Martino, lambendo Pineda. La seconda, costituita da 50 milioni di metri cubi d’acqua, si riversa a valle scavalcando la diga a folle velocità (qualcosa come 100 km orari) schiantandosi infine su Longarone, un muro d’acqua di 70 metri che come se non bastasse prima del suo arrivo scatena un vento assassino, pari all’esplosione di due bombe nucleari, un vento di quelli che staccano la pelle dalle ossa.
Non rimane nulla. Ma non è finita. Il riflusso verso valle non è più misericordioso dell’ondata in sé e semina a sua volta morte e distruzione. A farne le spese le frazioni di Rivalta, Pirago, Faè, Villanova e Codissago. Lo sbarramento malgrado tutto regge anche se non verrà più utilizzato (personalmente ho visitato due volte la diga, la sensazione di gelo che ho provato sospesa su quel baratro di cemento è indescrivibile, solo quando esploro fortini e trincee provo un’analoga impressione di vuoto interiore misto a rassegnazione).
Già, la diga. Un leviatano architettonico a doppio arco voluto dalla SADE, la Sociètà adriatica di Elettricità, che inizialmente doveva essere alto 202 metri (un serbatoio di 58 milioni di metri cubi d’acqua) ma che crescerà in corso d’opera fino a raggiungere i 261,60 metri (costo previsto 15 miliardi di lire), con una capienza di 150 milioni di metri cubi d’acqua.
Al mondo non esiste una diga del genere; la progetta l’ingegnere Carlo Semenza. Il geologo consultato per svolgere delle ricerche in merito è Giorgio Dal Piaz che nel 1928 si dice favorevole al progetto in considerazione del fatto che le condizioni strutturali dell’intera conca non sembrano peggiori rispetto a quelle degli altri bacini montani del Veneto ma che nel 1957 dinnanzi alla prospettiva di innalzare ulteriormente la diga dichiara di sentirsi tremare i polsi al solo pensiero. In una relazione geologica presentata nel 1948 Dal Piaz pone già l’attenzione sulla zona di Erto e Pineda, che presentano materiali detritici instabili, non escludendo la possibilità di frane, seppur dalle conseguenze meno devastanti rispetto a ciò che si è portati a credere (secondo lui).
Nel 1957 il geologo Leopold Müller presenta un rapporto geotecnico nel quale si legge che la sponda sinistra è soggetta a frane. Tuttavia la “macchina” ormai è in moto è non si fermerà. Con il corollario di espropri che ne consegue, naturalmente. A farne le spese sono sempre e solo gli abitanti. Le avvisaglie della catastrofe del Vajont (che in ladino significa “vien giù”, nomen sciaguratamente omen) ci sono tutte.
Nel 1959 in località Pontesei, a 10 km da Longarone, una diga funzionante presenta non poche anomalie: rumori sotterranei, macchie d’acqua giallastra localizzate sempre sulla stessa sponda, fessurazioni del terreno, inclinazione degli alberi. Una delle due sponde del serbatoio sta cedendo, è evidente. Si decide di togliere un po’ di acqua dal serbatoio: questo inaspettatamente fa sì che la frana acceleri.
La zona viene monitorata, ma non basta. Giunge la Domenica delle Palme di quell’anno e la frana sprofonda nel lago dando origine a un’onda di venti metri, che costa la vita ad Arcangelo Tiziani, incaricato di sorvegliare l'area. La popolazione è in fermento, ma nessuno fra quelli che contano pare (pre)occuparsene.
Tina Merlin, che ha partecipato a un’assemblea di contadini residenti a Erto-Casso, i quali hanno costituito un consorzio per la difesa della valle ertana (sono intimoriti dalle conseguenze della costruzione del bacino, poiché quei luoghi sono edificati sul terreno instabile di un’antica frana), si fa portavoce della paura di queste persone pubblicando un coraggioso articolo dal titolo: "La SADE spadroneggia ma i montanari si difendono".
Il fatto che l’ennesimo azzeccagarbugli abbia espresso il nulla osta circa le operazioni di costruzione non placa questa solida gente di montagna, fatta di radici e dura scorza, che vive le cime come estensioni del proprio corpo: la montagna piano piano sarebbe crollata nel lago, era già successo che un pezzo di Toc si fosse staccato. La questione non è "se" ma "quando".
Le scosse sismiche sono sempre più frequenti. Ci si mettono anche le piogge torrenziali di quel periodo ad aggravare la situazione. Ma chi di dovere continua a rimanere apparentemente indifferente. A ben guardare però anche ai "piani alti" traspare una segretissima ansia, ormai i segni premonitori sono inequivocabili: la montagna si sta spaccando. Improvvisamente il vero obiettivo è non creare allarmismo. In quest’ottica Tina Merlin dopo aver pubblicato il sopracitato articolo rimedia una denuncia per falso (a processo cadranno tutte le accuse).
Come sono andate le cose, purtroppo lo sappiamo tutti: il cataclisma si verifica senza un massiccio tentativo di evacuazione (il 7 ottobre del 1963 viene dato l’ordine di sgomberare il Toc, ma non Pineda, Liron e Prada, risoluzione del tutto insufficiente se si considera che ormai i movimenti del Toc erano visibili perfino a occhio nudo).
Questa vicenda è colma di manie di grandezza (la diga più alta del mondo? Cui prodest?), sopralluoghi, rapporti, insabbiamenti, segnali nefasti, invasi, svasi, piogge torrenziali, fattori geologici imprevisti, ripensamenti, processi, sciacalli. È uno specchio nero in cui si riflettono un passato prossimo e un presente altrettanto neri e viscosi come la pece (basti pensare a ciò che è successo a L’Aquila per comprendere che i decenni passano ma la presa di coscienza della collettività è pari a zero): se ti ci soffermi troppo uno specchio del genere ti attira nell'abisso.
1917 anime spazzate via dalla faccia della terra. Corpi straziati, quelli ritrovati. Tanti scomparsi per sempre, inghiottiti dalle acque e dalla montagna, una tragedia nella tragedia: non avere una tomba in cui riposare o sulla quale versare lacrime amare. Non c’è consolazione. E allora cosa resta? Solo la consapevolezza. Citando Marco Paolini e Gabriele Vacis: “Nessun rischio calcolato all’insaputa delle vittime o delle cavie, giustifica l’esistenza di un potere che tutela dall’alto, che detiene e nasconde informazioni che riguardano la collettività. Un popolo adulto non può dare a nessun tutore una delega in bianco su questo”.