I social nelle serie tv: due opposti approcci
La nostalgia del passato in tivù ha molti perché. Ne abbiamo parlato nell’ultimo post di questa rubrica: il ritorno a un momento idilliaco della storia ci distrae da un presente duro e di difficile incomprensione, addolcendocelo in alcuni casi, estraniandoci in altri.
Ma non è tutto.
C’è un altro aspetto importante di questa malinconia, molto meno romantico ma molto più efficace.
E ne parlo oggi perché proprio oggi esce il terzo capitolo della saga di Stranger Things, ambientato negli anni ’80 e pompato dai media con un hype tutto rivolto al passato (se avete buttato un occhio su Italia Uno in questi giorni avete capito a cosa mi riferisco, con la riproposizione di cult del decennio, da It ai Goonies, dai Gremlins a ET – L’extraterrestre). Non ci troviamo solo di fronte a una moda, ma anche a un eccellente escamotage tecnico. Perché ambientare film e telefilm nel passato aiuta la narrazione a liberarsi di un giogo tutto moderno: quello della presenza, ormai ingombrantissima, dei social e del digitale. Nessun racconto contemporaneo, se vuole risultare credibile, può sottovalutare l’aspetto web e social ignorandone l’esistenza. Non è concepibile oggi farne a meno, né sarebbe credibile. Tutti usano il web e tutti usano i social network.
Ciò nonostante integrare le due facce della realtà senza cadere, nel giro di poco tempo, nell’anacronismo, è un’impresa ardua, difficile, a volte impossibile. Il mondo della tecnologia gira vortico, ogni anno l’evoluzione digitale cresce esponenzialmente e in breve tempo tutto può apparire superato in un attimo. Ci sono serie tv relativamente recenti (prendiamo i primi anni 2000), dove l’elemento informatico non ha saputo reggere il tempo e, se viste oggi, sembrano appartenere alla Preistoria: si cita MySpace, i blog avevano una funzione essenziale nella fruizione delle notizie, le ricerche bisognava – incredibile – farle su computer grossi, rumorosi e ingombranti, soprattutto lenti. Insomma, IL PASSATO, ma un passato ancora troppo vicino per essere avvolto dalla piacevole patina del ricordo, risultando ahimé grottesco.
Per questo motivo è preferibile aggirare l’ostacolo, andare ancora più indietro, quando la tecnologia non era ancora così invadente da trasformare relazioni e comunicazioni e, agli occhi di noi uomini del Duemila avanzato, classificabile nell’immenso repertorio del vintage, che piace perché è diventata folklore.
A ciò si aggiunge la difficoltà reale nel raccontare sullo schermo la rappresentazione del digitale senza annoiare lo spettatore. Come si mostra un messaggio whatsapp? Come si inserisce nella storia l’emozione di un cuore su Instagram? Come si racconta il cortocircuito emotivo tra reazione digitale e azione reale (quante volte commentiamo un post con emoji esasperate mentre nella realtà lo sguardo è impassibile e imperturbabile)? Tra le serie tv più recenti ci prova, tra le tante, You (visibile su Netflix), ma non siamo ancora arrivati a una formula accettabile. Lo spettatore del futuro dovrà compiere una nuova fatica visiva, leggere su più livelli, scorrere lo schermo, ascoltare messaggi vocali, percepire con più attenzione la multimedialità della vicenda narrata.
Non sarà semplice, né per noi, né per chi scriverà tutto ciò.
Oppure, ci rifugeremo ancora in quelle epoche dove la massima necessità era trovare campo con un Motorola StarTac o, se più in là negli anni, chiamare da una cabina telefonica a gettoni e, se ancora più indietro, affidare una pergamena al messaggero del re.
P.S. Se vi interessa approfondire l’argomento, segnalo l’ottimo articolo di Paolo Armelli sul tema, che sviscera il fenomeno con molta precisione, anche all’interno della letteratura contemporanea. Buona lettura!
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